BLADE RUNNER
originale, il classico.
Film e romanzo.
Vita e miracoli di
un capolavoro cinematografico
Stati Uniti, Los Angeles, 2019
Una pioggia incessante, acida, radioattiva, conseguenza di un passato conflitto nucleare che ha devastato la Terra, infradicia la città gettando però, nel contempo, lampi di luce sull' asfalto bagnato ed illuminato dai coni che scendono dai pochi lampioni funzionanti, sotto i quali l'acqua dà i suoi riflessi. Quegli sparuti lampioni interrompono con fatica un' oscurità angosciosa, che sembra eterna, non più accantonata da un sole apparentemente scomparso dal calendario giornaliero. L 'interno dei locali pullula di volti di tutti i tipi, forme e colori: bianchi, neri, rossi, gialli, occhi scuri, grandi, piccoli, chiari, tondi o a mandorla, che scrutano il prossimo, sfuggenti, chiudendosi prima di venir scoperti mentre guardano, sotto copricapi di tutte le fogge. E i vani si riempiono di sonorità idiomatiche di tutti i generi, di tutto il mondo.
Uno scenario che al giorno d' oggi non fa più molto effetto ma che lo faceva al tempo in cui questa storia è stata scritta: CACCIATORE D I ANDROIDI, di Philip Dick, in italiano; DO THE ANDROIDS DREAM OF ELECTRIC SHEEP (In parole povere: gli androidi contano le pecore elettriche? ), in inglese; romanzo breve del quale il bravo e furbo Ridley Scott ha realizzato la versione cinematografica, regalandoci quello che forse è il più bel film di fantascienza nella Storia del Cinema: l'ormai mitico BLADE RUNNER, capolavoro della sci-fy colta, intellettuale ed anche un filino cerebrale.
In questo suo romanzo, partorito in piena Guerra Fredda (1968), lo scrittore americano Philip K. Dick ha immaginato un pianeta corrotto non solo dalle radiazioni atomiche ma anche da una società multietnica, faticosamente gestita da un governo invisibile che non si sforza più di tanto di tenere l' ordine poiché forse è impossibile. Pochi, all' epoca, han pensato che adesso quella situazione immaginata è divenuta reale.
Ma procediamo per ordine.
Oltre al melting pot etnico, Dick ha immaginato le macchine volanti che sorvolano la metropoli sotto il diluvio, ed anche la costruzione di androidi, creature a metà strada fra umano e meccanico, uscite dagli strumenti sofisticati di multinazionali ad alta tecnologia - una di queste è la Tyrrell Corporation - le quali hanno concepito questi esseri come sostituti dell' uomo nelle mansioni più umili, umilianti e faticose presso colonie di lavoro costruite al di fuori del suolo terrestre (Luna, Marte o stazioni orbitanti), dando loro anche una scadenza come i formaggini: quattro anni, dopo di cui vengono riciclati e rimessi in circolazione, fornendo così la spiegazione all' appellativo di REPLICANTI, affibbiato agli androidi. Ma quattro di questi esseri, appartenenti alla serie di fabbricazione Nexus 6, non accettano queste regole, queste condizioni e fuggono dalla colonia in cui sgobbavano, arrivando sulla Terra, intenzionati a infiltrarsi nella fabbrica da cui sono usciti per sabotarla, per far danni, per impedire che costruisca altri infelici, altri "lavori in pelle" come queste creature vengono definite con disprezzo da chi poi si occupa di recuperarli e.... replicarli.
A questo punto entra in scena Rick Deckard, un Chandleriano Marlowe del 3^ Millennio, ottimamente interpretato nel film, da un Harrison Ford in salsa Bogart, di poche parole e modi spicci, poliziotto investigatore del Dipartimento Speciale di Polizia Blade Runner, appunto, incaricato della ricerca di androidi pericolosi, a cui il Capo del Dipartimento affida, com' è spontaneo pensare subito, il delicato e difficile compito di rintracciare i quattro replicanti, catturarli e, se sarà necessario, anche ucciderli. Ciò contribuisce a rendere il film ancor più interessante in questa bella commistione fra fantascienza e thriller investigativo.
E' la sua ultima missione prima di ritirarsi dal lavoro, tuttavia, Deckard esegue il compito con estrema cura e professionalità, stanando i replicanti attraverso indizi che a tratti lasciano lo spettatore perplesso, meravigliato ma anche compiaciuto per l' arguzia con cui il bel Rick riesce a trovarli. Porterà a compimento la sua missione senza però uscirne indenne, sia fisicamente che, soprattutto, moralmente.
Gonfio di botte, con tre dita di una mano spezzate dalla forza sovrumana di Roy Bathy l' ultimo replicante rimasto in vita dopo lo scontro e la lotta con il detective che dava loro la caccia (un Rutger Hauer stile "Ti spiezzo in due", efficacissimo), sfinito da un duello con lui che sembra impari, per salvarsi da morte certa, Deckard si lancia disperato dal tetto di un palazzo altissimo per approdare sul tetto di un altro edificio ma, stremato, sbaglia la mira e finirebbe spiaccicato sull' asfalto del marciapiede sottostante se una trave non frenasse la sua caduta. Tuttavia, anche la trave non regge a lungo il suo peso e Deckard rischia di precipitare nel vuoto quando ecco che Roy Bathy gli afferra un braccio e lo ritira su, sul pavimento del tetto, per poi morire, ormai a carica esaurita, pronunciando una frase, anche questa destinata a rimanere nella storia della 7a Arte......
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.
Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo …
come lacrime nella pioggia.
È tempo … di morire.
.. in un finale di grandissima suggestione emotiva, che entra nella mente e nell' anima di chi vede il film. Ed è in quel preciso momento, pur sapendo cos' è un replicante, assistendo alla sua morte, che Deckard si chiede se lui, umano, sia meglio dell' androide così attaccato alla vita da decidere di salvare, sebbene all' ultimo secondo, quella del suo potenziale assassino. Nella stessa situazione, lui avrebbe salvato Roy? Non ne è sicuro, e la sua incertezza scatena nello spettatore una ridda di dubbi all' interno della sua coscienza, nonché numerose interessanti disquisizioni morali e filosofiche che ancora animano molti circoli culturali.
In una successiva seconda versione, BLADE RUNNER, DIRECTOR'S CUT, Scott cambia leggermente il senso del finale, insinuando nel personaggio e nello spettatore il sospetto che il poliziotto stesso sia un replicante, avvicinandosi, come qualcuno ha detto, al romanzo. Non è vero! Anche nel romanzo, Deckard è umano.
Ma Blade Runner non è solo indagine, tecnologia, arrovellamenti esistenziali e azione. Blade Runner è anche amore. Infatti, durante le indagini, il nostro bel tenebroso investigatore ha l' occasione di incontrare un' affascinante androide, Rachel, - la bella Sean Young, - di cui s'innamora perdutamente, da lei ricambiato, e con cui fugge alla fine del film, verso la luce della speranza, lasciandosi alle spalle il buio dell' angoscia.
Cosa distingue il film dal romanzo?
Le differenze non sono tante, ma Blade Runner è uno dei rari casi in cui il film è migliore del testo scritto grazie forse all' indubbia maestria e mestiere del bravissimo Ridley Scott.
La sequenza della morte di Bathy, nel film, è mille volte più emozionante di quella che Dick racconta nel romanzo. E sempre nel romanzo Deckard ha una moglie, ma non figli.
Se però vogliamo meriti al romanzo, questi vanno trovati senz' altro nella maggior quantità di spiegazioni che l' autore, inconsapevole (Dick non saprà mai che il suo romanzo verrà trasposto su grande schermo), fornisce a passaggi del film non molto chiari, lasciati così dal regista un po' per giocare con lo spettatore a "chi risolve il mistero", un po' per spronare lo stesso spettatore a non essere solo tale, ma anche lettore, e a cercarsi il libro per poi leggerlo e capire, probabilmente, qualcosina in più.
In ultimo, non va assolutamente dimenticata la stupenda colonna sonora, composta da autori diversi fra i quali spicca l' ex Aphrodite's Child, Vangelis, che ha realizzato il bel tema, fungente da accompagnamento della romantica scena finale in cui Deckard e la sua bella replicante senza tempo viaggiano su un aereo che sorvola un paesaggio finalmente aperto e soleggiato.
2017, dopo 35 anni dall'esordio di questo film, il 5 ottobre (oggi )esce un sequel: BLADE RUNNER 2049.
Già l'idea di aver realizzato il seguito di questa splendida storia è un insulto. E non dico altro. Ma prima di emettere una qualsiasi sentenza senza appello, vedremo com' è il film e quali reazioni susciterà nelle sale.
Nota conclusiva: per chi non lo sapesse, esiste, in effetti, un romanzo che si chiama proprio THE BLADE RUNNER, scritto da Alan E. Nourse, il cui titolo ha ispirato Scott per il film, ma l'argomento è tutt' altro. In questo romanzo, sempre breve, il protagonista Bill Gimps si muove nel commercio illegale dei farmaci, ed il Blade Runner è colui che procura "spade" - blades - di droga.
Nel 1979, William Burroughs riceve l' incarico di scriverne la sceneggiatura per un film, ma non se ne fa niente, quindi, il testimone passa, per fortuna, a Ridley Scott che invece ha già in mente di tradurre il romanzo di Dick in prodotto cinematografico e ne approfitta per "rubare" il titolo.
Il resto lo conosciamo.
Alla prossima.
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Non
c’è dubbio: la pandemia è “in”. E’ il tema del giorno … Anzi! E’ il tema
dell’anno, di questo 2020, bisestile, ma che non può essere definito tale solo
per la pandemia.
E sulla pandemia di Covid è stato detto di tutto e di più. Ma
anche il contrario di tutto.
Il virus è uscito accidentalmente da un
laboratorio cinese nella regione di Wuhan, in Cina.
No, il virus è stato creato
appositamente e diffuso sul pianeta con lo scopo di svuotarlo un po’.
Largo
dunque ai complotti e complottisti che vedono nell’episodio un piano segreto,
ma mondiale di sterminio, ordito da un gruppo intenzionato a farsi spazio
intorno.
Il piano era stato ideato molto tempo fa, prima di ogni altra nostra
immaginazione.
No. Il piano è recente e chi più ne ha, più ne metta.
Il
fatto scatena la fantasia di chi ama scrivere e raccontare storie, ma narrare
epidemie globali non è
una moda soltanto di oggi.
Risale
forse alla notte dei tempi e, in ogni caso, è stata seguita da molti nei secoli
dei secoli.
Un esempio letterario celebre? Il Decamerone, di Giovanni
Boccaccio, Medioevo, in cui un gruppo di persone tenta di sfuggire ad una
pestilenza. E forse esiste qualcosa di ancor più antico. Le pandemie sono un
terreno fertile nella narrativa. Anche Manzoni si cimenta al meglio nella
descrizione di un’ epidemia di peste. In entrambi i casi, gli autori non l’
hanno inventata. C’ era sul serio e ha provocato una strage. Con la differenza
che allora nessuno pensava alla volontà umana di uccidere con un virus benché
l’ ipotesi non sia del tutto da scartare. Ma ci si pensa adesso, non all’ epoca.
Torniamo
a bomba e spieghiamo il motivo di questa introduzione.
Ancora lui, ancora
Stephen King, il Re della paura, dell’ Horror.
Attenzione ! Dell’ Horror, non
dell’ orrore. E’ diverso. Poiché l’ orrore è un sentimento suscitato dalla
visione di qualcosa che affonda nelle viscere del corpo, l’ Horror è un genere
letterario e cinematografico che può includere e provocare sentimenti e
reazioni varie a determinate situazioni non necessariamente disgustose. L’
Horror include la paura che può scaturire dalla visione di qualcosa non piacevole alla vista, tuttavia non rivoltante, ma anche sì. Un virus non è
visibile, però le conseguenze della sua diffusione possono scatenare orrore, o
forse più paura, oppure ambedue i sentimenti quando le conseguenze del male
stravolgono i connotati umani. Nella Maschera della Morte Rossa, di Edgar
Allan Poe, il virus copre corpi e volti di sangue (allusione profetica ad
Ebola?).
Virus, spesso inventati, trasformano gli uomini in zombies o vampiri. E via spargendo e spaventando.
Come
spaventa King? Con un’ epidemia di influenza, molto simile al Covid nei suoi
sintomi e sviluppo. Nel romanzo L’ Ombra dello Scorpione (The Stand, in
originale inglese; L’attesa, tradotto in italiano), la storia parte da qui, e
King si diverte sadicamente a descrivere nei dettagli i danni che questo virus
causa ai malcapitati colpiti da esso. E questo può essere, in effetti, horror.
La paura? La paura è quella di esserne contagiati, la paura di morire, vista la
strage di umani che la piccola creatura compie nel giro di poco tempo. Paura
più orrore uguale Horror. Forse.
Non
solo. Letto ora, nel 2020, in piena pandemia di Covid, il romanzo mette
letteralmente i brividi per l’ attinenza dei fatti con ciò che sta succedendo
in questi mesi, come se l’autore avesse quasi previsto l’accadimento. In
realtà, è probabile che King si sia ispirato ad altri episodi simili, cadenzanti la
storia dell’ Uomo. Basti risalire a giusto un secolo fa, 1918-20, allorché la razza umana ha subito una discreta riduzione di esemplari, falciati dalla famosa
Spagnola che ha spedito all’ altro mondo oltre 50 milioni di persone solo
in Europa. E altre epidemie sono seguite a quella, rendendo gli eventi del
romanzo piuttosto realistici e inquietanti. Ecco. Giusto. Il vaticinio. La
profezia di un evento che si è verificato e che molti sono pronti a giudicare
una sinistra coincidenza. Ma, come ho detto prima, King non è certo stato l’
unico a narrare pandemie.
La lista di opere letterarie,
e poi anche cinematografiche,
è molto lunga. C’è da divertirsi tanto !
Comunque,
in breve, di cosa parla l’ Ombra dello Scorpione?
Scoppia
un’ epidemia di un’ influenza dal decorso letale e i sopravvissuti si riuniscono
in due gruppi: uno capitanato da un’ anziana donna, mezza Pellerossa, Mother Abigail, vivente
in una fattoria dove coltiva granturco (un leitmotiv di King) e dispensa parole
di saggezza; l’ altro, guidato da un gioviale cowboy, Randall Flagg, il cui aspetto, all’ apparenza rassicurante e
bonario, non corrisponde alla sua vera natura. Scatta dunque il conflitto
Bene/Male, classico della narrativa, con una evoluzione scoppiettante, ma non del
tutto imprevedibile, che, però, in ogni caso, come càpita nei romanzi di King,
tiene il lettore inchiodato alla poltrona, col fiato sospeso fin quasi alla
fine.
Il romanzo non ha mai avuto versioni cinematografiche, ma la tv lo ha omaggiato un paio di volte, trasponendolo in
serial nel 1994 e ora, nel 2020. La pubblicazione di questo post coincide con l’
inizio della messa in onda – oggi, 3 gennaio 2021 -, della serie sul canale
streaming Starzplay.
Buona
visione e, alla prossima.
Eventuali commenti, qui
THE
OUTSIDER
by
STEPHEN KING
Non
è detto che gli alieni debbano necessariamente provenire dallo
spazio e questo è scritto anche sotto il titolo del blog
Alieno
è anche ciò che esce dal normale, dall' ordinario.
Nella
narrativa fantastica gli alieni possono essere creature che, nell'
aspetto, esulano dalle regole comuni. Possono avere due gambe, due
braccia ed una testa ma con conformazione diversa dai canoni dell'
umano. Perché dico questo? Per introdurre un romanzo letto poche
settimane fa, sebbene sia uscito qualche anno addietro, nel quale si
parla di alieni, non però extraterrestri.
Parlo
di The
Outsider,
di Stephen
King
conosciuto come re dell' Horror e del fantastico. E The
Outsider
è horror, nonché fantastico.
Ma
procediamo per ordine.
A
Flint City, tipica cittadina della sonnacchiosa provincia americana,
dove tutti si conoscono più o meno, un ragazzino, Frank Peterson
sparisce nel nulla per poi riapparire in formato cadavere, per di più
orribilmente sfigurato e mutilato, molte ore dopo, in un bosco ai
margini della città.
Ralph
Anderson, lo sceriffo del paese, incaricato delle indagini, ascolta
un certo numero di testimonianze che riportano un dato comune, cioè,
l'assassino, identificato in Terry
Maitland,
mite insegnante e allenatore di baseball nella scuola del paesotto.
Tutti gli interrogati sostengono, giurano e spergiurano di aver visto
il suo mezzo di trasporto vicino al luogo del delitto. Qualcuno
sostiene di aver visto Maitland stesso scendere da un furgone bianco,
con gli abiti sporchi di sangue. Risultato: l' insegnante viene
arrestato da Anderson stesso il quale commette l' enorme sbaglio di
trascinarlo in manette fra il pubblico, provocando lo sdegno di
moglie e figlie che vedono il loro caro, umiliato in quel modo.
Passa
il tempo e si arriva al processo. Di nuovo Maitland è esposto alla
folla inferocita che lo crede colpevole. Qualcuno, addirittura,
spara, colpendo l' uomo a morte .....
Da
quel momento, per Anderson comincia un calvario di sensi di colpa e
conseguente ossessiva ricerca della verità per rimediare all'errore
imperdonabile più per se stesso che per gli altri .
Rivedendo
filmati e riascoltando le testimonianze emergono dettagli che
sembrano scagionare il povero insegnante. Forse non è stato lui ad
uccidere Frank Peterson, ma l' assassino gli somigliava molto. E
allora? Chi è stato?
Spulciando
l'archivio di memorie e casi passati, pian piano viene a galla un
particolare assai inquietante: qualcosa
assume forma umana. Qualcosa
uccide
sotto mentite, ma note spoglie ..... La figlia minore di Maitland
racconta di aver visto uno strano uomo con le pagliuzze brillanti
negli occhi ...
Stephen
King vanta un vastissimo fandom che porta milioni di dollari sul suo
conto bancario, tuttavia, alcuni suoi estimatori gli rimproverano una
poderosa prolissità ed un quantitativo industriale di dettagli che,
alla lunga, può stancare. Però non si può negare che proprio
questa ricchezza di particolari aiuta chi legge le sue opere - specie
se è attento - a giungere alla conclusione della vicenda raccontata,
con le idee chiare su quel che accade nel romanzo.
Malgrado
questa sua caratteristica, è indubbia l'abilità di Stephen King nel
catturare l' attenzione del lettore, inchiodandolo quasi alla lettera
a sedie, poltrone, divano e letto, ovunque si senta comodo a leggere,
e spingendolo diabolicamente nel prosieguo della lettura fino alle
fatidiche ore piccole della notte, sorprendendolo a intimarsi la
chiusura del libro, pena il non sentire la sveglia che lo riporta
alla dura realtà del dover andare a lavorare il giorno dopo.
Una
domanda (mi) sorge spontanea dopo aver letto altri due romanzi gialli
in cui il presunto assassino è un insegnante. Perché scegliere un
esponente di questa nobile categoria nel ruolo dell' ipotetico
omicida? In virtù della professione rassicurante, con una piega,
diremmo, familiare? In effetti, dopo i genitori, per i giovani, i
professori della scuola che frequentano sono spesso il secondo punto
di riferimento nella formazione della personalità, dunque, la figura
dell' insegnante è un cardine, un perno nella vita di chi attraversa
l'adolescenza, pertanto, il personaggio dovrebbe essere
insospettabile ma, proprio in ragione di questo, alcuni autori hanno
scelto un professore di scuola come sospettato numero uno delle loro
fantasie criminali, forse per dimostrare che nessuno è realmente
innocente e, soprattutto, che non ci si può fidare del tutto delle
apparenze, nemmeno delle più scontate. Vedere alla voce: Chiesa.
Nei
suoi romanzi fiume, Stephen King non punta solo a spaventare il
lettore ma, attraverso la tensione e la paura, lo spinge a riflettere
su tematiche mai banali, costringendolo spesso ad una sorta di
auto-analisi che talvolta gli strappa, con una certa energia, timori
e disagi psicologici, non di rado, sconosciuti e covati nell'animo
chissà da quanto tempo.
Nota finale, ma non meno importante: da questo romanzo, come pure da molti altri di Stephen King, pur con fortune alterne negli esiti, è stata tratta una buona serie televisiva che reca lo stesso titolo, peraltro ottimamente recensita nel blog amico I. U. F.
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1Q84
HARUKI MURAKAMI
Kawana Tengo è un giovane scrittore, o più esattamente un ghost writer, ovvero uno che scrive per conto terzi senza mai apporre la sua firma. Ma siccome è anche bravo in matematica, per vivere insegna la materia a scuola. Caratterialmente è un tipo tranquillo, che ama condurre un’esistenza povera di scossoni emotivi, ricca, invece di semplici abitudini. Ha trent’anni, non si è costruito una famiglia, ma ha una donna con cui fa sesso una volta alla settimana e gli va bene così. Tuttavia, questa sua tranquillità, che sfiora quasi l’ autismo, non durerà a lungo.
Aomame ha trent’ anni, si guadagna da vivere come istruttrice sportiva, e sta andando ad uccidere un uomo. Non è il suo secondo lavoro, né può essere definita un killer. Piuttosto potrebbe essere etichettata come giustiziera, poiché la vittima è un tizio che ha ucciso la sua migliore amica e non solo lei. Insomma, è un cattivo e Aomame ha deciso di eliminarlo perché questo è uno dei princìpi che sostiene la sua esistenza morale.
Tengo ottiene da un editore l’incarico di rieditare un romanzo: La Crisalide d’ aria, scritto da una liceale 17enne affetta da dislessia e disgrafia. Il giovane scrittore esegue ottimamente il lavoro tanto da trasformare il romanzo in un bestseller che scala le classifiche in pochissimi giorni fino alla posizione più alta nelle vendite.
Nel primo volume di questa trilogia le storie di Tengo e Aomame scorrono parallele senza mostrare punti di connessione, ma il lettore subodora presto che invece i punti ci sono.
Si affaccia poi il personaggio di Fukada Eriko, che il lettore segue con lo pseudonimo di Fukaeri, la giovanissima autrice de La Crisalide d’aria, il romanzo del momento, imparando a conoscerla come una ragazza timida, riservata, di poche parole, enigmatica e sfuggente. Il romanzo che ha scritto è catalogabile nel genere fantasy. Un piccolo gruppo di sei folletti, che lei chiama Little People, crea crisalidi invisibili dentro i quali si ha l’ impressione che si materializzino i desideri più nascosti. Sembra una fiaba innocua, ma tanto innocua non è. Nel testo, infatti, traspare, nemmeno molto velatamente, un messaggio preciso che è insieme una richiesta di aiuto ed un avvertimento di pericolo.
Nel 2° volume della trilogia il mistero comincia pian piano a diradarsi.
Leggendo le notizie su Fukaeri, si apprende che ê fuggita da una setta: la Sakigake (in giapponese: i precursori). Ai suoi esordi la Sakigake è un’associazione politica, di sinistra, che voleva cambiare il mondo, poi si è mutata in setta religiosa, rigida e moralista, ma di una morale, alquanto dubbia. E proprio grazie ad un’ altra ragazza, scappata anche lei dalla setta, e trovata in preoccupanti condizioni fisiche e psichiche, con addirittura segni di gravi violenze sul corpo, è facile capire che all’interno della setta non si prega solamente.
Infatti, qualcosa di più oscuro e scabroso emerge allorché Aomame riceve da una donna l’ incarico di uccidere niente di meno che il leader carismatico della Sakigake, colpevole, per quanto risulta dalle informazioni in possesso alla mandante del crimine, di misfatti innominabili. In accordo con la donna riguardo all’opinione sull’ uomo, Aomame accetta il lavoro alla cui esecuzione si prepara con la fredda lucidità e consapevolezza, tipiche di chi è convinto di essere nel giusto, nonostante la natura del compito affidato, ma una volta al cospetto della vittima, resta interdetta quando si sente chiedere da lui di ucciderlo perché prossimo a morire a causa di un male, forse, incurabile. Tuttavia, prima di lasciare il mondo, il leader le svela molti segreti sulla setta, su Fukaeri, su Tengo e la Crisalide d’aria, fornendo, in un certo qual modo, una spiegazione al messaggio criptico contenuto nel romanzo, trasmesso dalla giovane scrittrice.
Nel frattempo, il lettore scopre anche una connessione fra Tengo e Aomame. I due si conoscono da bambini, avendo frequentato per breve tempo la stessa scuola elementare. Per 20 anni si perdono di vista, ma nessuno dei due ha dimenticato l’altro e fra Tengo e la ragazza si stabilisce una sorta di collegamento extrasensoriale che potrebbe aiutarli a ritrovarsi (I poteri psichici, specie nei personaggi femminili, sono un elemento ricorrente nei romanzi di Murakami). Inoltre, prima di ucciderne il leader, anche Aomame ha avuto contatti con la Sakigake.
Il terzo volume dell’opera parte coi i connotati di una detective story in piena regola. La setta ingaggia un investigatore privato, pregandolo di mettersi sulle tracce di Tengo, ma soprattutto di Aomame che, dopo l’assassinio del leader, sparisce completamente dalla circolazione.
Dove, dunque, incastonare questo romanzo? In quale genere? Difficile farlo. Ê un geniale mix tra low fantasy, thriller e mistery (il paranormale è piuttosto presente), in cui gli elementi delle varie tipologie sono sapientemente mescolati senza che uno prevalga di netto sull’altro. Tuttavia, in molti passaggi, il fantastico pare avere la meglio. Infatti, l’autore, il giapponese Haruki Murakami ci conduce in un suo universo alternativo da lui creato, posizionato a Tokyo, nel 1984, anno in cui si svolge l'azione (“Q”, in Inglese, è pronunciato “chiu” che in giapponese traduce “9”) , e separato dal mondo reale da una scala che Aomame scende nel recarsi sul luogo del delitto. Un universo in cui lei, Tengo e pochi altri vedono due lune: una grande e gialla, l’altra più piccola, deforme e verde, muovendosi di continuo all’interno di un’apparente immensa crisalide invisibile e magica.
I romanzi di Murakami sono reperibili nei maggiori stores fisici (l'editore italiano di Murakami è Einaudi) e in quelli virtuali di Amazon e altri negozi online.
Ecco alcuni titoli:
Norvegian wood
Kafka sulla spiaggia
Dance, dance, dance
Nelle sue opere Murakami privilegia l'introspezione psicologica aiutando così il lettore a partecipare non solo alle azioni dei personaggi, ma anche ai loro pensieri, alle sue sensazioni, alle emozioni ed ai sentimenti. In parole povere, dopo aver letto alcune pagine, il lettore ha idee chiare su ogni figura che si muove all' interno della storia.
Tuttavia, se prima di 1Q84, sono stati letti i romanzi precedenti, si ha l' impressione che quest' ultimo costituisca un po' il compendio della narrativa di Murakami in quanto in esso l' autore sembra aver concentrato tutte le sue tematiche preferite. Questo però non vuol dire scartare a priori le opere scritte antecedentemente a 1Q84. Sono comunque interessanti e vale la pena leggerle.
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OMBRE DI SABBIA
by FABIO BERTI
Per
vivere, Daniele Fossati guida pullman turistici.
All'apparenza,
Daniele è un giovane uomo normale, marito amorevole di Monica, padre premuroso
e affettuoso di Mirko, il loro figlio, un vispo bambino di dieci anni.
All'apparenza.
Ma
l'autore del romanzo ce lo introduce a letto con Micaela che, è chiaro a tutti,
non è la sua consorte, in plateale e godereccio amplesso, che viene disturbato
da una drammatica telefonata di Monica: Mirko è scomparso nel nulla! Rapito?
Daniele
piomba dalle stelle del sesso, e dell'amore clandestino, alle stalle della
disperazione e Fabio ci accompagna, quasi come un Caronte del 21^ secolo, nei
gironi dell'inferno della malavita che apre le porte infuocate a tutte le sue
attività illecite, e anche piuttosto squallide, della prostituzione con giovani
donne dell'est e, peggio ancora, a tutto ciò che di turpe ruota intorno ai
minori, fino a portare alla luce un dettaglio non ancora noto a tutti
nell'àmbito del loro sfruttamento. E conoscendo la sua doppia vita, Daniele si
vede presto circondato e ricattato dai criminali il cui indiscusso messaggio è:
"o fai quel che ti diciamo di fare, o tuo figlio finirà come hai visto
finire gli altri suoi coetanei", sebbene questi ultimi siano quasi tutti
extracomunitari. Facile intuire che Daniele non abbia molta scelta per salvare
il suo bambino.
Dunque,
thriller o noir?
Thriller,
sicuramente ma con una decisa piega noir dal momento che, secondo le regole di
quest'ultimo genere, non esistono, in realtà, buoni a tutto tondo o cattivi al
cento per cento. Non esiste il bianco o il nero ma il grigio, che intride trama
ed ordito in tutte le sue sfumature, con prevalenza di scuro come le anime dei
personaggi, Daniele compreso.
Dopo
essersi prodotto brillantemente nella fantascienza cerebrale di Madame63, e nel
mistery mefistofelico de L'Attentato, Fabio Berti dimostra la sua abilità ed il
suo eclettismo anche nel realismo più crudo di questo suo noir dove non (ci)
risparmia particolari scabrosi, ma neppure movimentate scene degne di un buon
film d'azione, spolverandolo, oltretutto del saporito pecorino romano
(nell'accezione più positiva dell'espressione) che si è divertito a spargere
sui dialoghi in dialetto romanesco per sottolineare l'ambientazione della
storia proprio dalle nostre parti, nella zona sud della provincia di Roma, fra
la capitale e Anzio.
Che
altro dire?
Fossi
in voi, non perderei più di vista questo giovane scrittore.
Chissà,
la prossima volta, dove ci porterà!
Il libro è reperibile su Amazon.com, per ora, solo in versione digitale.
Gli altri libri, recensiti più in basso: MADAME63 e L'ATTENTATO; sono rintracciabili sia in formato digitale, sempre su Amazon, sia in formato cartaceo nei più grandi punti vendita (Feltrinelli & Co.).
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L'ATTENTATO
By Fabio Berti
Fabio Berti colpisce ancora!
Dopo Madame63, cervellotico ed impegnat(iv)o ma anche affascinante ed intrigante fanta-novel, ci allieta con un altro suo romanzo "sui generis", dalla vaga impronta fantastica, conducendoci per mano lungo i corridoi e le stanzette di un monastero greco in cui si srotolano eventi che sfiorano il paranormale.
Chiariamo subito le idee: cinque giovani decidono di trascorrere una vacanza in un'isola dell'arcipelago ellenico, volutamente non ben definita per dar forse maggiore rilievo, non a torto, ai fatti rispetto alla location. Su questa isola, i cinque dànno sfogo alla loro voglia di divertirsi nella modalità più sfrenata e libertina, effettuando una sorta di pellegrinaggio poco ortodosso fra un locale notturno e l'altro, abbandonandosi al fascino del peccato. E in uno di questi locali, soddisfano questo desiderio grazie a belle ragazze provenienti dall'est europeo con le quali s'intrattengono in ogni tipo di divertimento. Ad un certo punto però, in uno di questi locali compare un tizio dall'aspetto ed aura misteriosi che l'autore presenta come Il Temuto. Chi è? Un boss della mala? Un trafficante di stupefacenti? Un "magnaccia", protettore e organizzatore della prostituzione? Quel che si capisce subito è il suo non essere esattamente un santo. Dopo la sua comparsa si verifica la scomparsa di due dei cinque giovani che si vedono inghiottiti nei meandri del monastero di cui sopra, nel quale si muovono religiose che però non hanno sposato il nostro Gesù o Dio, bensì un altro dio, l' "altro" dio, rivale del più conosciuto e adorato buon vecchio. E scopriranno anche, piuttosto velocemente, che nei locali del monastero si svolgono riti lontani da quelli canonici di Santa Romana Chiesa.
Non solo.
Verranno anche a conoscenza del progetto di un "attentato" (titolo del romanzo) che ha lo scopo di sconvolgere le fondamenta della stessa religione cristiana.
Riuscirà il Temuto a mettere il pratica il suo folle piano?
Per saperlo basta leggere questo romanzo fino in fondo.
E Fabio ci porta fino all'ultima pagina con un garbato crescendo di tensione, non risparmiandoci alcuni momenti quasi horror di cui però si intuisce la natura senza arrivare allo splatter e al gore beceri e volgari di certi romanzi e film attuali che risultano talmente esagerati da destare più risate che paura. Tra l'altro, in più di un passaggio, Fabio si lascia andare anche a piacevoli guizzi di ironia, in cui sembra voler sdrammatizzare una situazione che invece appare subito piuttosto seria e pericolosa e, per sommi capi, un po' tutto il genere fantastico/mistery.
Bravo, Continua così, speriamo.
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MADAME 63
Un pizzico di 1984, una lieve spolverata di Un'arancia a orologeria (Arancia Meccanica al cinema), una sorvolata su Il prigioniero (serie tv) e infine un'immersione nella vasca degli Stati di allucinazione di Ken Russell. Tutto questo amalgama di citazioni letterarie, cinematografiche e televisive è MADAME 63, il romanzo di esordio del simpatico Fabio Berti, informatico per necessità e scrittore per passione, amante di cinema e letteratura che sparge a generose dosi sulle sue pagine facendoli convivere pacificamente e armoniosamente in un clima e in un'ambientazione fantascientifici dove ipotizza un mondo in cui l'umanità è controllata e controllabile da una fantomatica oligarchia di possibile origine extraterrestre, mediante la manipolazione mentale.
Quattro individui sono sottoposti al MADAME, metodo discutibile (e qui il primo richiamo letterario/cinematografico ad Un'arancia a orologeria in cui il sistema Ludovico inibisce gli istinti violenti del protagonista Alex fino a ridurlo ad un essere mite ma senza più personalità) nel quale, e col quale, pensieri ed esperienze vengono sollecitati a forza e portati a galla (allusione a Stati di allucinazione di Ken Russell) soggettivamente ma anche collettivamente in quanto, tramite questo metodo è possibile visualizzare anche pensieri ed esperienze altrui in una sorta di confessionale virtuale privato e pubblico che avrebbe il fine di mondare le coscienze dai peccati secondo una nuova neuro-religione più in odore di politica che di fede (chiaro riferimento a 1984 e al Prigioniero, figlio "televisivo" del romanzo di Orwell).
Ma per fortuna questo metodo non sembra funzionare alla perfezione come dovrebbe e qualcuno si salva riuscendo a rimanere se stesso e a condurre una vita abbastanza libera e normale.
Ovviamente questo tipo di storie è a forte connotazione allegorica e si riferisce ad una situazione che, tutto sommato, non si discosta molto dalla realtà odierna mascherata da democrazia ma di stampo sinistramente e subdolamente dittatoriale. Siamo davvero liberi di pensare ciò che vogliamo? E soprattutto: siamo liberi di esprimere liberamente i nostri pensieri o dobbiamo uniformarci ad un modus cogitandi massificato e orientato in una certa direzione? La libertà di pensiero, forse, ancora c'è, almeno fino a quando non si riuscirà a leggere anche nella mente; quanto al poterla esprimere, su questo ho qualche riserva.
Il nostro Fabio ha confezionato un romanzo di lettura scorrevole, interessante ed avvincente, dimostrando anche di conoscere bene l'aspetto scientifico del funzionamento del MADAME e del nostro cervello; una storia che ci spinge a riflettere sul potere della scienza e della tecnologia il quale, se non ben incanalato ed usato, può trasformarsi in un'autentica arma di distruzione di massa.
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ULISSE
di J. Joyce
recensito
per,
e
spiegato a:
l'uomo
della strada.
Per le sue singolarissime
caratteristiche, ULISSE, di James Joyce può essere considerata l' opera letteraria più "aliena" che sia mai stata concepita
e scritta da mente umana ed io proverò
a parlarne come se dovessi raccontarla al mio vicino di casa, totalmente
disinformato sull' oggetto di conversazione.
Prima di tutto, scriveró in italiano e non in "critichese",
idioma tanto amato dagli intellettuali, quasi sempre infarcito di vocaboli che
i critici letterari vanno a cercarsi con la lanterna di Diogene sui
dizionari delle varie accademie, e che
fanno molto cólto e figo, possibilmente incomprensibile e
inarrivabile all'ignobile volgo che predilige Follett o Stephen King, ergo, la
lettura di questa recensione è tassativamente vietata a chi
viene còlto da nausea provocata dalla lingua, appunto,
volgare.
Dopo di ciò, passiamo al sodo.
Ulisse, dunque, avventura;
avventura di un uomo: Leopold Bloom, irlandese di Dublino come l'autore, di cui
egli descrive una giornata intera, dall' alba al tramonto, muovendolo all'
interno del suo habitat consueto: casa, luogo di lavoro, strade della città e di nuovo casa, facendogli compiere le azioni
di una persona qualunque: sveglia al mattino, doccia, barba, colazione,
spostamento all'ufficio, lavoro, chiacchiere coi colleghi, e ritorno a dimora.
A questo punto molti lettori
che non conoscono quest'opera si chiederanno dov'è l'avventura. Giusto, ma per l'autore anche la
vita quotidiana può essere un' avventura. Di
questi tempi poi, con la crisi imperante, vivere è davvero un'avventura quando, con i soldi, non
si riesce ad arrivare a fine settimana.
Romanzo minimalista?
Intimista? Forse, a dispetto delle quasi settecento pagine di lunghezza, ma
ecco giungere la magia, gli "effetti speciali" coi quali Joyce ci ha
voluto stupire imprimendo a questa sua opera il marchio di immortalità nel panorama letterario mondiale.
Dove sono magia ed effetti
speciali?
Nel romanzo stesso.
E qui bisogna dar ragione ai
critici allorché da alcuni di essi è stato definito "romanzo
sperimentale" in quanto Joyce lo ha scritto lasciandosi trasportare dal
"flusso di coscienza", cioè:
dai pensieri di un uomo - ma anche di una donna, la moglie di Leopold, Molly -
così come nascono nella mente, fluiscono e corrono
fra i neuroni del cervello, privi di ordine e, in certi passaggi, privi di
punteggiatura, esattamente come ciascuno di noi pensa, senza rendersene conto,
con interruzioni di frasi non compl(eta)te e improvvisi quanto bruschi salti da
un pensiero all'altro, diversissimi fra loro, scevri da qualunque coesione. Da
questa entropia mentale ne esce un conseguente caotico traffico cerebrale non
facile da seguire per un lettore avvezzo, per esempio, all' ordine logico di un
thriller, ma se si lasciano le convenzioni dietro la porta, si può rimanere affascinati da questo stile di
narrazione.
In dettaglio, due i capitoli che emergono e
meritano una pausa per l'originalità:
uno, Joyce si è divertito iniziando a scriverlo in inglese
antico del Medioevo (e in questo caso, l'ideale sarebbe poterlo leggere nella
sua versione, per l'appunto, Inglese o, addirittura, Irlandese, ovvero:
gaelica), procedendo poi nell'evoluzione della lingua che contraddistingue ogni
paragrafo del capitolo, fino ad arrivare all' Inglese "moderno",
attuale della sua epoca (primi del '900).
L' altro capitolo, meritevole
di sosta riflessiva, è l' ultimo: quaranta pagine
senza un segno di punteggiatura, che accompagnano e seguono le riflessioni a
ruota libera di Molly, proprio nella modalitá
con cui ciascuno di noi dá la stura ai suoi pensieri
non curandosi dell'ordine col quale escono e fluiscono. D' altro canto. quando
pensiamo, ci preoccupiamo di mettere punti, virgole e punto e virgola? Non
credo.
Ribadisco: lettura non facile
ma, se ci si impegna un pò, di indubbio fascino.
Un certo signor Linati poi,
esimio critico letterario, ha fornito un' interessante sua personale
interpretazione, accostando ogni parte del romanzo ad un organo del corpo umano
a cominciare dal cervello, collegato al mattino, fino agli organi di
riproduzione, giustamente connessi con la sera, momento della giornata in cui
ci si dedica ai piaceri della carne e del sesso. Non a caso, le vicende del
protagonista si concludono in un bordello. L' interpretazione però, in se stessa non aiuta molto a comprendere
meglio la complessità del romanzo, tuttavia offre
uno spunto in più per riflettere su questa
opera davvero particolare.
Ben inteso che se non la si
legge, la propria vita non cambia di molto. Sulla Terra non debbono essere in
tanti ad aver letto Ulisse e non credo che chi non lo ha letto si senta
inferiore agli altri, Non deve, però,
se ci si imbatte in questo libro, il feed back e l' esperienza che si ha
leggendolo, lasciano il segno ed è
un segno difficilmente cancellabile. Arrivare in fondo al romanzo è già
di per sé un' impresa dal ricordo incancellabile!
Per
la cronaca, nota sull'autore. La biografia di James Joyce è molto facilmente
reperibile in rete su Wikipedia, su siti dedicati ed in qualunque buona
enciclopedia cartacea, ma c'è da sottolineare la data di nascita: 2 febbraio 1882.
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IL PATTO DEI LUPI
Di Pierre Pelot
Francia, 1764. Uno sperduto
villaggio montano del Gévaudan è scosso da delitti misteriosi quanto
terrificanti e le vittime vengono ritrovate letteralmente a brandelli, quasi
siano state fatte a pezzi da una qualche creatura non di questo mondo. La
notizia perviene alla corte reale e il re vuole saperne di più, così
invia sul luogo un ispettore. Grégoire de Fronsac, a cui dà
ordine e compito di indagare sui crimini.
L' uomo comincia subito a
lavorare procedendo come un vero e proprio investigatore contemporaneo,
chiedendo di vedere le vittime ed interrogando la gente del posto per cercare
di sapere qualcosa, ma trova gli abitanti sgomenti, impauriti e poco propensi a
collaborare. Solo un uomo, un Indiano, Nativo Americano, Mani (si chiama proprio così),
si dimostra più disponibile, nonché in possesso di alcune utili informazioni.
Purtroppo però, anche in presenza dell' ispettore, i delitti
non si fermano frenando ancor di più
le già scarse intenzioni della popolazione locale ad
aiutare l' uomo il quale brancola letteralmente nel buio. Ma è proprio nel buio di una notte che, nel bosco
circostante il villaggio, l' investigatore trova le risposte e la soluzione del
mistero. Mistero che si scopre sconcertante, diverso da quello che ispettore e
lettore si aspettano.
Il romanzo ha tutti gli
elementi del giallo gotico, sfiorante il paranormale e il soprannaturale:
l'inchiesta e l'atmosfera lugubre, gelida e ostile, non fosse che i fatti
narrati... sono accaduti realmente in Francia tre secoli fa; in più, è
infarcito ed impreziosito da dialoghi nei quali emerge lo spirito illuminista
dell' epoca, in bilico fra le nuove idee progressiste che si affacciano e il
timore che queste possano sconvolgere la vita e la società del tempo.
Del romanzo è stata realizzata una versione cinematografica
valida per tre quarti di esso, ma con interventi cappa e spada, serie "I 3
Moschettieri" di bassa lega, che non rendono onore a questa ottima opera, sfortunatamente poco conosciuta e
reclamizzata, e non animano il film a sufficienza per inchiodare lo spettatore
alla poltrona. Meglio i delitti. Almeno quelli soddisfano il gusto del macabro
senza tuttavia affondare nello splatter.
Note sull'autore: Pierre
Pelot è nato a Saint Maurice sur Moselle, ha iniziato
a scrivere nel 1965 cimentandosi nei generi western, fantascienza, fantasy e
mistery. Inoltre è giornalista, sceneggiatore
televisivo e cinematografico. Vive nei Vosgi con moglie ed un figlio.
Siamo ormai abituati al colore ed ai colori
sfavillanti dei nuovissimi sistemi di
visione dei film che sono usciti in questi ultimi 20, 30 anni, eppure, per
certi loro film particolari, anche in questi ultimi tempi, alcuni registi hanno
scelto il bianco e nero per raccontare storie che, forse, a colori, non
avrebbero suscitato lo stesso impatto emotivo che suscita il colore.
Cominciamo col ricordare il bianco e nero,
con forte maschera di contrasto che rafforzava le due tinte donando ad esse, e
al film, una drammaticità che emozionava sul serio.
Il bianco e nero dà il suo meglio nei
ritratti di persone specie se il fotografo è abile con la distribuzione della
luce e dell'ombra sul suo volto, nonché della nitidezza nell'immagine,
indurendo o sfumando i primi piani, levigando così certe asperità o segni del
tempo che passa, sulla pelle. Altresì,
la luce ben orientata sul viso e sugli occhi può regalare espressioni
dell'attore indimenticabili. Basti ricordare certe inquadrature degli attori, o
delle attrici, nei thrillers anni '40,
tratti dai romanzi di Raimond Chandler, interpretati da calibri del cinema come
Bogart e Rita Hayworth o Ingrid Bergman, già belli di loro, resi ancor più
interessanti ed intensi da un riflettore sugli occhi o con i loro profili scuri
contro un chiarore diffuso per tutto il fotogramma.
Citiamo
anche, ad esempio certi vecchi film di carattere fantastico, che sfioravano
elegantemente l' horror, come le celebri pellicole dedicate ai
"mostri" e alle creature del mistery, tipo Dracula (o Nosferatu, se
preferite) oppure all'Uomo Lupo.
Memorabile, per chi ama il genere, e
comunque orami un "cult", il Nosferatu
di Fiedrich Murnau, cineasta
tedesco, che un bianco e nero ben contrastato, con generoso e geniale gioco
delle ombre e delle luci nei momenti giusti, fa del film un capolavoro assoluto
del genere, regalandoci emozioni e veri brividi (altro che gli splatter
rivoltanti, sanguinolenti ma quasi ridicoli horror odierni!), in fondo, con
poco, estrapolando la figura del vampiro la cui ombra, totalmente nera,
essenziale, scheletrica ma molto definita contro il bianco di un'area della
parete illuminata dalla luna nel suo tragico espressionismo
teutonico/carpatico, con le mani nere, sottilissime ed artigliate, lo precede e
lo accompagna su per la scala cigolante che lui sale per andare a mordere e
uccidere la sua vittima.
Paura genuina, ancora oggi dopo quasi 70
anni, palpabile in certi fotogrammi in cui la sagoma del mostro sembra quasi
apparire in 3D!
Ed ecco che compare il bianco e nero anche
in questi ultimi anni per decorare un paio di pellicole completamente
antitetiche ma aventi più o meno lo stesso soggetto, cioè, l' horror, con la
sola differenza che la prima è drammatica e la seconda, decisamente comica,
sfiorante il demenziale.
Il primo film: The Elephant Man (l'Uomo Elefante) di David Lynch il quale, in questo caso, è ricorso al bianco e nero,
anche qui, piuttosto contrastato, è la storia vera, ambientata nell'Inghilterra
Vittoriana del 19o secolo, di un povero essere umano colpito da una rarissima
deformazione fisica provocata da un'altrettanto rara forma tumorale denominata necrofibromatosi
o, Sindrome di Proteo, la quale
ha completamente sfigurato il suo volto tanto da trasformarlo in una sorta di
mostro che uomini senza scrupoli hanno sbattuto davanti alle macchine
fotografiche come un fenomeno da baraccone infischiandosene della sua
sensibilità e dei suoi sentimenti.
Ci penserà uno psichiatra a toglierlo da
quell'autentico orrore e restituirgli dignità nonché una vita sociale quasi
nella norma. Ma la malattia progredisce inesorabile fino a portarlo alla morte
che, forse, per lui sarà quasi una salvezza, il tutto in un bianco e nero che
parte con forti contrasti, proprio per accentuare la sua tragedia
(impressionante la scena in cui il poveretto viene scoperto dallo psichiatra,
seduto e abbandonato in un fienile, in mezzo ai maiali, con il b/n che accentua
la sua deformità) e si stempera nel film
man mano che la storia si addolcisce e si fa più umana.
Il secondo film, firmato da Mel Brooks, una garanzia nel campo del
film comico, è una parodia dei film horror (inutile dire che il bicolore ben si
addice al genere) che ha come protagonista il famoso Dottor Frankenstein e la
sua altrettanto celebre povera creatura. Il titolo è appunto: Frankenstein Junior.
Anche
qui Brooks sceglie il bianco e nero, con tutta probabilità per rendere omaggio
alle celebri pellicole della tipologia e, come han fatto i famosi registi,
autori dei film, per conferire alla pellicola quel tocco di drammaticità e
suspense caratteristiche del genere. Solo che ha ottenuto l'esatto effetto
contrario, senza dubbio voluto, facendo rotolare dalle risate intere
generazioni che hanno visto, e che continuano a vedere e a rivedere, il film,
anche dopo oltre 40 anni dalla sua prima uscita.
Da non dimenticare nel modo più assoluto, la
scena dell'arrivo del dottore, accompagnato dal fido assistente Igor, al
castello, con la foto del maniero nero sullo sfondo, forse dipinto a mano ma in
ogni caso suggestivo, circondato da montagne aguzze, scure anche queste,
oppresse da grosse nubi gonfie e plumbee per rendere l'atmosfera cupa e presaga
di morte o comunque, varie sventure.
Nota
comica:
il dottore chiama Igor, Aigor,
pronunciando il suo nome all'Inglese.
Igor è un personaggio straordinario e
straordinariamente disegnato come classica caricatura del tipico aiutante di
uno scienziato pazzo, con la schiena deformata da una gobba "mobile"
che, dettaglio curioso, ogni tanto si sposta da un lato all'altro sotto l'ampio
mantello rigorosamente nero; e con un occhio strabico, mobilissimo e sporgente il
quale suscita risate solo a vederlo. Le due figure: quella del dottore e di
Igor, sono molto chiare, in contrasto appunto con l'oscurità dello sfondo. Il
volto magro, irregolare e pallido di Igor spicca e sembra "bucare" lo
schermo reso scuro dalla scenografia tenebrosa del film.
Di
recente sono comparsi perfino cartoni animati in bianco e nero, di provenienza
non a stelle e strisce bensì dal Medio Oriente, per la precisione dall'Iran, passando
per la Francia,
dove un regista ha raccontato, dietro l'allegoria e la metafora di una fiaba,
ciò che accade realmente nel suo Paese in cui l'espressione artistica è
osteggiata dal governo proibizionista, e oscurantista della religione che, come
sappiamo, fiancheggia sempre l'azione della politica.
E anche qui, in Persepolis, troviamo un bianco e nero ben
contrastati e nitidi a seconda di chi compare sullo schermo, mutuati
dall'omonimo fumetto francese, anche questo in bianco e nero, di Marjane
Satrapi, (francese, ma di origine iraniana) nel quale l'autrice narra la sua
vita in Iran, vista prima con gli occhi di una bambina che assiste ai mutamenti
sociali, purtroppo negativi di questi ultimi anni, ma con uno sguardo innocente
e curioso; e poi con la visione di una donna adulta che diventa consapevole
della gravità di questi mutamenti, le cui tragiche ripercussioni si fanno
sentire soprattutto sulle spalle femminili.
Steven
Spielberg ha scelto il bianco nero per raccontarci il dramma dell'Olocausto,
nella Lista di Schindler,
regalandoci l'indimenticabile scena della retata nel ghetto di Portico
d'Ottavia, inquadrando gli Ebrei catturati dai Nazisti quel terribile 16
ottobre 1943 e filmandoli mentre, ordinatamente ed in silenzio, marciano
insieme e compatti verso il loro destino atroce. Una scena di massa di grande
effetto, in tutte le sfumature del grigio degli abiti in mezzo alle quali
spicca il rosso del cappottino di una bambina.
E
infine, in una curiosa pellicola americana, targata anni '90 ma ambientata
negli anni '50, PLEASANTVILLE, lo staff tecnico del film si è divertito a
cominciare il film in bianco e nero, facendo muovere i personaggi all'interno
di una sitcom dell'epoca, e virando lentamente dal bianco e nero al colore man
mano che il tempo passa sia nella finzione che nella realtà.
E come dimenticare il bellissimo THE ARTIST, di provenienza francese, vincitore di ben 5 oscar, che, oltre al bianco e nero, rende un ottimo omaggio al cinema muto grazie alla bravura degli attori i quali si sono adattati benissimo alle movenze melodrammatiche che compensano in modo magistrale l'espressività sonora del parlato?
Concludiamo
affermando che il bianco e nero, sfumato in tutte le tonalità del grigio, è
ottimo nell'architettura dell'edilizia, sia all'esterno che negli interni, in
quanto, talvolta, è in grado di creare veri e propri capolavori fotografici
artistici. Per crederci, vedere alcuni vecchi film di fantascienza. Gli interni
delle astronavi in bianco e nero sono arte post-moderna. E vogliamo lasciare indietro il bianco e nero, quasi pop art di METROPOLIS, di Fritz Lang?
******
Pubblico volentieri qui un commento, contrappunto ed aggiunta a questo mio post sul cinema in b/n, scritto da un amico: Giancarlo Marchesini, professore emerito della Facoltà di Traduzione ed Interpretariato dell'Università di Ginevra, come me, appassionato di cinema.
Grazie Giancarlo.
Cinema in bianco e nero
Contrappunto
di Giancarlo Marchesini
La lettura in anteprima
di Cinema in bianco e nero di Paola Leoncini, mi ha talmente interessato che,
con il permesso dell’autrice, propongo agli amici del Simposio, una serie di
chiose che ho definito contrappunto perché, come in musica, vorrei che le due
linee melodiche si intercalassero, appoggiandosi l’una con l’altra.
Cominciamo dalla fine dell’articolo
di Paola, ricordando, a parte la fantascienza, le grandiose architetture
sceniche dei film dell’espressionismo tedesco, esaltate evidentemente dalla scelta
del bianco e nero. Chi non ricorda le stupefacenti scenografie e gli stati
d’animo evocati da Caligaris, Nosferatu o Metropolis proprio grazie
all’accostamento dei neri e dei bianchi?
Alfred Hitchcock esitò lungamente prima di usare il
colore. La prima pellicola in cui lasciò il bianco e nero è Rope. Il primo film a colori di
Michelangelo Antonioni, Deserto rosso,
risale al 1964 e la scelta fu talmente motivata da fare del film una vera e
propria sperimentazione cromatica che gli valse un nastro d’argento per la
migliore fotografia.
Per
riprendere un arguto passaggio dell’articolo di Paola, dopo l’incontro sul
marciapiede della stazione di Transilvania, Igor (l’indimenticabile Marty
Feldman) inizia a scendere una scaletta di legno dicendo a Frederick
Frankenstein walk this way (gioco di
parole inglese fra “vieni da questa parte”
o “cammina in questo modo”). Frederick inizia a scendere le scale
zoppicando, esattamente come Igor. Dopo qualche secondo, il protagonista,
incarnato da un indimenticabile Gene Wilder, fa una smorfia come a dire “Ma
quanto sono scemo”. Se questa espressione patognomica fosse stata realizzata a
colori, avrebbe perso il 90% della sua carica comica.
Fra
un autore e il suo lettore si stringe il cosiddetto patto narrativo (Kafka non
dà alcuna spiegazione del perché Gregor Samsa si sia trasformato in un insetto;
la Metamorfosi è avvenuta e basta).
Se il lettore accetta di entrare in questo mondo di fantasia, lo rielabora individualmente
e lo fa proprio.
La
stessa reazione si verifica nel caso del primo King Kong, realizzato nel 1933,
evidentemente in bianco e nero. Ci
rendiamo perfettamente conto che il gigantesco gorilla e il dinosauro contro
cui si batte sono delle marionette animate. Ma avendo accettato il patto
narrativo, ci facciamo trasportare in un mondo fantastico in cui il bianco e
nero (che fa le veci di una sublimazione della realtà) ci aiuta a seguire la
trama, considerandola come credibile.
Nel
1976 veniva realizzato un remake di King Kong (una produzione Dino De
Laurentis), girato a colori. Orbene, questo film è molto meno convincente
dell’originale del 1933. Il colore esalta l’artificiosità dei movimenti e delle
espressioni dei bestioni. Il risultato è che lo spettatore (almeno io) si
disamora del
film non crede più in ciò che sta guardando,
considera il tutto una pietosa imitazione di una “realtà” immaginaria.
Bisognerà
aspettare il King Kong del 2005 per ammettere che la tecnica moderna, le
meraviglie dell’informatica e il genio di Peter Jackson ci fanno immergere completamente
nella storia godendola come una fiction ben riuscita. Ma resta pur sempre il
dubbio: il King Kong del 1933, rudimentale com’era, invitava lo spettatore a
riempire la pellicola con suoi contenuti (la collaborazione interpretativa del
compianto Umberto Eco). Quello del 2005 è una storia preconfezionata che non
lascia spazio alla fantasia dello spettatore.
La
Lista di Schindler inizia con una sequenza a colori a lume di candela. Ma ben
presto la fiamma si spegne ed inizia una storia drammatica, tutta in bianco e
nero. Il colore ricomparirà alla fine del film con la marcia delle vittime
dell’olocausto e l’ultima scena della visita al cimitero. Finzione, realtà, illusione,
mito?
E
per finire con una nota gioiosa ricordo che il bianco e nero (virato di viola) sta
a sottolineare la noia e l’umiliazione nella vita di Dorothy de Il mago di Oz. Non
appena la protagonista entra in un mondo di fantasia si accendono colori
sgargianti che si smorzeranno di nuovo alla fine del film, quando Judy Garland
ritrova finalmente la sua incredula famiglia e il suo amato cagnetto. Grande
Victor Fleming, che avrebbe di lì a poco firmato Via col vento, e che si serve del colore o del bianco e nero (sia
pur virato) per illustrare la differenza fra fantasia e realtà!
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