Pagine di narrativa che raccontano
imprese compiute da .... alieni !
25 aprile 2017
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25 novembre 2016
Contro la violenza
sulle donne
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31 ottobre 2016
HALLOWEEN
Prologo
Collecchio, Parma
La notizia arrivò in casa come un fulmine a ciel sereno:
"Hanno preso Giovanni! Giovanni è prigioniero degli Americani!".
Giuseppe, il fratello maggiore, di soli 5 anni più vecchio di lui, ma già ben inserito nel mondo del lavoro, per giunta ai piani alti (era funzionario del Ministero della Difesa), dopo un attimo di panico nel quale si infilò le mani nei capelli, riprese il controllo dei nervi e della situazione, attivando la sua mente e il suo entourage per andare a liberare il suo Giovanni.
Aviano, Friuli
Riuscito a sapere dove si trovava, Giuseppe arrivò a destinazione in macchina, trafelato, col cuore in gola e il terrore che Giovanni avesse dovuto subire sevizie. Sugli uomini dell'Esercito Alleato non gravava la famigerata nomea di carnefici crudeli che invece caratterizzava i membri di quello tedesco, ma girava voce che neppure i primi fossero teneri con i nemici, presi prigionieri. Tuttavia, quando, finalmente, ebbe la possibilità di entrare nella base friulana, lo spettacolo che gli si presentò, lo fece restare a bocca aperta.
In una stanza, non molto ampia, arredata solo con un tavolo lungo e qualche sedia, Giovanni era in piedi sul tavolo, e cantava in dialetto parmense, accompagnato da un coro di soldati, che cantavano in inglese e battevano le mani a ritmo della musica, ognuno con una bottiglia vuota di birra o whisky in mano.
All' ingresso di Giuseppe, magro, non molto alto, capelli castani lisci e il volto teso dalla preoccupazione che induriva i lineamenti già marcati di suo, elegante nei suoi abiti scuri, i militi smisero di cantare e si alzarono in piedi, avvertendo un rispetto che comunque era dovuto a quel'uomo, pur essendo lui un nemico.
Giovanni scese dal tavolo e abbracciò il fratello, poi, tutti tornarono a cantare e a battere le mani, trascinando anche Giuseppe nell'allegra baldoria.
"Is he a friend of yours? (E' un tuo amico?)" chiese un soldato americano, un ragazzone alto e biondo, indicando Giovanni a Giuseppe.
Non conoscendo l'inglese, Giuseppe non capì una virgola di ciò che il soldato gli aveva appena detto, tuttavia, la felicità di vedere il fratello, ancora tutto intero, in buone condizioni fisiche e in quella situazione gaia, lo portò ugualmente a rispondere in modo affermativo. Il soldato comprese e sorrise a sessantaquattro denti.
"He's a jolly lovely buddy!" (E' un ragazzo davvero simpatico) si complimentò, battendogli una mano sulla spalla.
Giuseppe continuò a non capire, ma sorrise anche lui e si trovò a portar fuori Giovanni a forza da quella stanza.
"Mi stavo divertendo! - protestò Giovanni, allegramente - Sono simpatici questi americani!".
Usciti dall'edificio che ospitava la base, Giuseppe fu avvicinato da un suo dipendente il quale gli comunicò che doveva raggiungere una località per un appuntamento importantissimo di lavoro.
"Vai, Giuseppe! - disse Giovanni - Mi arrangio da solo. Ci vediamo a casa!".
Giuseppe lasciò a malincuore suo fratello, essendo in ogni caso anche lui consapevole che Giovanni se la sarebbe davvero cavata molto bene, come aveva sempre fatto sin da piccolo.
*********
La jeep
La guerra era ormai finita.
Il 25 Aprile ne decretò il termine e l'Italia, distrutta, festeggiò l'avvenimento come la fine di un terribile incubo, durato 5 lunghi anni, e costato milioni di morti.
Da quel momento, Giovanni e i suoi compagni di sventura furono liberi e i carcerieri si disinteressarono completamente del loro destino, tornando alle antiche competenze. Ma nessuno di loro dimenticò quell'uomo, non un gigante di statura, ma con il fisico irrobustito da anni di sport, i capelli neri e gli occhi azzurri. E soprattutto nessuno dimenticò che Giovanni, ingegnere meccanico, laureatosi al Politecnico di Torino in tre anni e mezzo, aveva contribuito, nel suo piccolo, ad una svolta della guerra progettando e mettendo in pratica la possibilità di colpire i bersagli nemici di notte grazie ad un sistema di puntamento, quasi fantascientifico all'epoca, che sfruttava i raggi infrarossi e le fotocellule.
Dal momento della liberazione, Giovanni ebbe in testa di tornare a casa in un modo o nell'altro e con qualsiasi mezzo avrebbe trovato a disposizione.
Nel vasto parcheggio della base di Aviano, svuotata ed abbandonata, riposavano alcune grosse jeep. Giovanni andò in avanscoperta, salì a turno su ognuna delle auto, ne provò l'efficienza del motore e il contenuto del serbatoio, congiungendo i cavi penzolanti in basso, dopodiché, trovati due che scintillarono, confermandogli il funzionamento della vettura, fece cenno ai suoi amici, nonché compagni di prigionia, Giorgio e Andrea, di salire in macchina, quindi accese il motore e tutti e tre partirono.
A fine conflitto, le strade erano in condizioni disastrose, specialmente al Nord che aveva subito la guerra in modalità senza dubbio più pesante rispetto al resto del Paese, essendo situato al di sopra della famosa Linea Gotica. In situazione normale, con una buona automobile, la distanza fra Aviano e Parma si copre in tre ore e un quarto (circa 300 Km) ma, a fine guerra, per tornare in Emilia, Giovanni e i suoi amici impiegarono una giornata intera e dovettero considerarsi fortunati.
Pochi chilometri dopo, al volante, Giovanni si accorse che l'indicatore del carburante era in settore di riserva e sapeva che non sarebbe stato facile rimediare benzina; per di più, la tabella di marcia era notevolmente rallentata dalla gimkana che il giovane era costretto a compiere per evitare gli ostacoli costituiti da buche grandi come crateri, sassi, pezzi di asfalto saltati e lasciati in mezzo alla carreggiata, carcasse di veicoli, ed anche qualche cadavere non rimosso per assenza di servizi deputati allo scopo.
Era già notte, ma ad un certo punto, pur al buio, fra quegli ostacoli, Giovanni fu certo di vedere qualcos'altro; qualcos'altro che credette di riconoscere.
"Giù dalla macchina, ragazzi!" urlò, tuffandosi fuori dall'auto, sulla strada, lui per primo.
I due compagni, seduti al suo fianco e sul sedile posteriore dell'auto, rimasero un attimo interdetti e, ad un secondo grido dell'amico, si buttarono anche loro meccanicamente dalla macchina.
Senza più guida, la jeep avanzò per due, tre metri, come un ubriaco sulla carreggiata, ed esplose come un vulcano in eruzione, illuminando quel tratto di ciò che una volta era un nastro stradale.
Rotolati in mezzo all'erba alta dei prati, ai lati della strada, i tre restarono stesi a terra, storditi ed indolenziti dal botto per alcuni secondi poi, rialzatisi, si riunirono sul ciglio della via.
Il falò provocato dall'esplosione rivelò per qualche minuto il triste paesaggio che li circondava.
In lontananza, al confine estremo dei campi incolti, su entrambi i lati della strada, raggiunti debolmente dall'alone aranciato delle fiamme che si alzavano dal rogo della vettura, si delineavano i contorni delle macerie edilizie come spettri nelle tenebre, dai cento occhi ciechi dentro orbite nere.
"Come cavolo hai fatto a vedere quella mina al buio?" chiese allibito Andrea a Giovanni.
"Sono nictalopo" rispose Giovanni, soddisfatto.
"Nicta-che?" esclamò Andrea, che non aveva ancora mai sentito questo vocabolo.
"Nictalopo" ripeté Giovanni, divertito.
"Cos'è? Una bestia?" chiese Andrea, sempre stupito.
"Sì. - rispose Giovanni, in tono finto serio - Come te".
"Nictalopo è uno che ci vede bene di notte" tenne a precisare Giorgio, con l'aria del maestro saccente.
"Ecco, - puntualizzò Giovanni - Bravo. - si complimentò con Giorgio. Poi, rivolgendosi di nuovo ad Andrea: - Vedi? Lui ha studiato".
"Beh, ma adesso che facciamo?" chiese, sconsolato, Giorgio.
"Andiamo in cerca di un altro mezzo per tornare a casa" rispose Giovanni, nell'atteggiamento di chi era molto ottimista nel trovarlo, malgrado tutto.
Giovanni non aveva bisogno di stimoli per vedere la vita in rosa.
L'ottimismo era nel suo DNA sebbene si fosse avvicinato pericolosamente alla fine della sua esistenza in più di un'occasione, a cominciare dalla sua prima infanzia.
Sua madre era morta di spagnola quando lui aveva solo sei mesi e suo padre, non sapendo come allevarlo, lo aveva affidato ad una signora in paese che però aveva l'abitudine di dar da mangiare solo ai suoi figli, dimenticandosi del piccolo Giovanni. Il bimbo rischiò la morte per fame, finché qualcuno non si accorse di questa grave noncuranza. Sfiorato il rachitismo per denutrizione, grazie ad un medico sveglio e preparato nel suo mestiere, il piccolo Giovanni fu sottoposto ad un regime alimentare ipercalorico, e al padre fu consigliato di mandarlo a fare sport per ovviare al pericolo di scoliosi. In pochi anni Giovanni divenne un plurispecialista in molte discipline, con particolare riguardo allo sci, in cui si distinse arrivando quasi al podio olimpionico.
Forse fu il pericolo di morire a infondergli amore per la vita.
Giovanni e i suoi due compagni cominciarono a camminare sulla strada, ancora incerti sul da farsi.
Nessun veicolo passò di lì, ed accettare un passaggio da sconosciuti, in quel periodo, non era del tutto consigliabile neanche per tre uomini, nonostante Giorgio ed Andrea fossero alti e ben messi.
"Dove siamo?" chiese Giorgio.
Giovanni si guardò attorno.
Avendo già iniziato a viaggiare fin da prima della guerra, possedeva un buon senso dell'orientamento e un' altrettanta buona conoscenza del territorio.
"Dovremmo essere in quel di Pordenone" ipotizzò.
"Ma quanti chilometri abbiamo fatto?" chiese Andrea.
Giovanni fece una smorfia di sufficienza.
"Forse una ventina" rispose.
"E quanti ne dovremmo ancora fare per andare a Parma?" domandò Giorgio, avvilito.
"Mah, - rispose Giovanni, tranquillo - forse trecento!".
Per un pelo Giorgio non svenne.
Ridacchiando, Giovanni lo sorresse e gli batté una mano su una spalla.
"Dai che in qualche modo a casa ci arriviamo!" lo incoraggiò.
"Si. - si lamentò Andrea - Per Natale...".
Ma l'ottimismo di Giovanni vinse una volta di più.
*********
Il carro armato
Non avevano idea di quanto avessero camminato, e di dove fossero, ma il tempo trascorso era stato scandito dal crepitare cupo dei loro scarponi sul selciato martoriato della strada e dal brontolio dei loro stomaci vuoti.
Il vago chiarore dell'alba precoce della primavera inoltrata svelò a un paio di centinaia di metri da dove loro si trovavano l'inconfondibile sagoma di un grosso carro armato, parcheggiato su un'area erbosa, al lato opposto della via.
Giovanni si bloccò, folgorato dalla visione, e affrettò il passo fino a giungere vicino all'oggetto del suo sogno ad occhi aperti. Non riusciva a crederci! Un carro armato tutto per lui! Perché lui sapeva cosa fare con un carro armato! L'idea gli era scoppiata nel cervello la prima volta che ne aveva visto uno.
Arrivati vicino al veicolo, Giorgio e Andrea trattennero Giovanni per le spalle.
"Vorrai mica tornare a Parma con quello!"esclamò Andrea, sotto shock.
"Vuoi tornarci a piedi? - lo apostrofò Giovanni in tono amichevolmente acido - Prego. Comincia a pedalare. Ma non lamentarti se ci arrivi a Natale!".
I due fissarono il carro armato con leggero turbamento.
Durante la guerra ci erano saliti tante volte, ma chissà perché, in quell'attimo, provavano paura.
Invece Giovanni no.
Giovanni non ne era intimorito. Era salito su molti di quei mezzi per installarci la sua invenzione a fotocellule, ed era in grado di guidarlo. Non aveva la patente per condurre un'automobile, ma sapeva guidarla e, soprattutto, sapeva guidare un carro armato. Compì il periplo del mezzo accarezzandolo e radiografandolo con il suo intenso sguardo ceruleo. Sul fianco destro color fango era stata dipinta la bandiera U.S.A. con stelle e strisce.
Si guardò intorno per vedere se qualcuno si facesse vivo, magari nascosto nei paraggi, probabilmente pronto ad ucciderli, ma nessuno spuntò dall'erba alta, nessuno attraversò la strada per reclamare l'appartenenza del mezzo e non un'anima viva comparve dal nulla, armata, per far loro del male.
Via libera!
"Forza! - Giovanni esortò quindi i suoi amici, aprendo il portello del veicolo - Se c'è benzina e questo parte, siamo a casa a Ferragosto!". E notando la perplessità dei compagni, non esitò a spingerli sul carro armato assestando a ciascuno di loro un calcio nel sedere.
Salito per ultimo, Giovanni prese posto al comando e si apprestò a mettere il veicolo in moto. Il colosso ferroso era americano, capiva solo l'Inglese Americano, ma dopo una vivace sequenza di colorite bestemmie in dialetto parmense, sparata da un Giovanni in crescente crisi di nervi, ancorché ben contenuta, dette segni di ripresa e di aver capito che doveva muoversi, tossicchiando, vibrando e scuotendosi come un orso a fine letargo. Solo per metterlo sulla strada il giovane ingegnere impiegò una decina di minuti di assurde manovre; tuttavia, una volta rientrato su ciò che rimaneva di quella strada, il mastodonte cedette alla disinvoltura del suo guidatore e cominciò a grattare i rimasugli dell'asfalto, avviandosi verso Parma.
Giovanni realizzò molto presto che su quell'arnese non avrebbe potuto emulare Tazio Nuvolari, altro suo idolo, insieme con Zeno Colò, ma fu contento di procedere ad una velocità bassa, però costante, e di godersi le espressioni meravigliate negli occhi delle persone che vedevano passare il mezzo, immaginando che all'interno ci fossero i salvatori dell'Italia.
A giorno più definito, intravedendo una piccola folla di gente assieparsi lungo la statale per assistere al transito dei mezzi Alleati, Giovanni uscì dalla torretta del carro armato come una tartaruga, e salutò le persone sorridendo e agitando la mano.
Tutti applaudirono il suo passaggio, credendo che fosse inglese o americano.
*********
Verso casa
Lasciarono il ricordo della statale a Bologna per immettersi sulla Via Emilia e seguitarono la loro marcia verso casa. Giovanni lasciò Giorgio allo svincolo per Reggio Emilia, e Andrea, a quello che lo avrebbe riportato a Modena, non prima però di essere sceso dal carro e aver abbracciato a turno i due compagni della breve prigionia, con la promessa di risentirsi e rivedersi.
Non è dato di sapere se ciò accadde.
Fatte le promesse, Giovanni rimontò sul mezzo e riprese la strada verso Collecchio.
Dal momento in cui era arrivata la notizia della sua cattura da parte degli Alleati, considerate le scarse possibilità di comunicare con la sua famiglia, sicuramente suo padre Leo stava in pena per lui. Chissà se Giuseppe era riuscito ad avvertire il loro genitore della sua liberazione?
Era di nuovo il tramonto quando imboccò l'ampia curva oltre la quale avrebbe dovuto rivedere la grande casa con i muri celeste chiaro e il vasto giardino intorno.
E da una finestra del salone, all'interno del casale, Leo vide avvicinarsi un carro armato che si stagliava scuro e minaccioso contro la luce porpora del Sole che calava.
"Oh no! - pensò fra sé - Era una balla! La guerra non è finita!" e mentre sentiva il panico crescere nel suo animo, lui, uomo sensibile, timido e riservato corse nello sgabuzzino vicino alla cucina per prendere il fucile. Avrebbe difeso la sua casa anche con la sua vita. Uscì sul viale e lo percorse correndo fino al grande cancello di ferro, aprì il cancello e schizzò in mezzo alla strada puntando l'arma contro il grosso mezzo cingolato.
Vedendo suo padre col fucile puntato contro di lui, Giovanni si decise ad emergere dal carro aprendo il portello della torretta, ma non perché avesse paura che suo padre gli sparasse.
"Papà! - gridò comunque - Non sparare! Sono io! Giovannino!".
Avrebbe potuto essere chiunque, ma non con quella voce! Quella voce era di Giovanni.
Finalmente il grosso carro armato si arrestò a pochi metri dai piedi di Leo e Giovanni scese dal veicolo. L' uomo non credeva ai suoi occhi che sentì inumidirsi. Il suo Giovanni era lì davanti a lui, ancora tutto d'un pezzo.
Anche Giovanni, rivedendo suo padre smarrirsi negli indumenti larghi, col viso ancor più sfilato e segnato dalle rughe e gli occhi azzurri umidi, faticò a trattenere la commozione.
Padre e figlio si abbracciarono a lungo, poi Leo incitò il figlio a entrare in casa.
"Avrai fame" disse.
Si. Giovanni aveva una fame da lupo e i profumi di buon cibo che provenivano dalla porta aperta contribuirono ad aprire maggiormente la voragine che si era ormai creata nel suo stomaco. Non era riuscito a metter più nulla sotto i denti dalla sera precedente. Anzi! A pensarci bene, erano più di ventiquattro ore che non toccava cibo. Oppure da quanto? Non lo ricordava con esattezza.
I pasti americani erano stati insufficienti e durante il viaggio verso casa lui e i suoi amici non avevano rimediato un posto dove poter almeno bere un caffè con una goccia di latte. Tutti i luoghi di ristoro erano stati trovati chiusi perfino in una regione come l'Emilia, ma la guerra si era appena conclusa e il nemico non aveva lasciato niente, neppure da mangiare.
Per fortuna, con i suoi allevamenti di maiali, animali da cortile, il grano e il mulino, il casale della sua famiglia era rimasto un'isola felice anche per il paese, che aveva potuto tener lontano lo spettro della fame pure nei momenti più bui del conflitto. E quella sera, in casa, Giovanni ebbe la possibilità di rimettersi in pari con il cibo.
"Peppino?" chiese, mentre s'ingozzava di salsicce preparate dalla domestica, rimasta fedele in famiglia per tutto il periodo della guerra.
"Non è ancora tornato" rispose il padre, in tono neutro.
"Enrico?".
"Neppure lui" e lo disse in tono mesto, poiché Enrico era ancora prigioniero in Germania.
"Tornerà, papà" lo rincuorò Giovanni con il suo incrollabile ottimismo.
Ed Enrico, infatti, tornò qualche giorno dopo, irriconoscibile per le sofferenze e le terribili privazioni che aveva dovuto sopportare. In Germania non aveva subito violenze per mano degli aguzzini di Hitler, ma nell'ultimo periodo di prigionia, lui ed i suoi sfortunati commilitoni erano giunti a frugare nei bidoni della spazzatura per recuperare almeno le bucce delle patate con cui potersi sfamare anche solo per pochi minuti, una volta al giorno quando era andata bene.
*********
La scomparsa di Giovanni
Dal giorno dopo Giovanni sparì, insieme col carro armato, all'interno di un capannone non lontano dal casale, al limitare del vasto giardino che lo circondava, per almeno tre stagioni, durante le quali smontò il mezzo fino alle più piccole viti, fotografando ognuna di esse, tutti i componenti del veicolo, e rimontando pian piano il tutto seguendo l'idea che gli era venuta alla vista del primo esemplare di carro armato capitatogli davanti agli occhi.
E in un' uggiosa e fredda giornata padana di inizio inverno, Giovanni tornò in famiglia annunciando il lieto evento e invitando padre e fratelli a seguirlo nel capannone per vedere la causa della sua lunga assenza da casa.
Nell'ampio, ma spoglio ambiente, senza pavimento, un tempo adibito a stalla, la luce esterna, grigia di pioggia e foschia, filtrando a strisce attraverso le sbarre di ferro arrugginite, e le doghe di legno delle finestre, di cui alcune spezzate, andava a colpire un "mostro" alto e sottile che, a vederlo così, faceva pensare ad una sorta di giraffa di ferro, ambulante sui cingolati.
"Cos'è 'sta roba?" esclamò il genitore, fissando l'oggetto, con i suoi già grandi occhi celesti, ulteriormente allargati dalla meraviglia e dalla perplessità.
Dal carro armato, simbolo di guerra, dolore e sangue, era nata, come l'Araba Fenice risorta dalle sue ceneri, la Finitrice , maestoso macchinario che, nelle intenzioni e nei calcoli dell'ipercinetico cervello di Giovanni, avrebbe dovuto servire per livellare le strade, rendendole più scorrevoli sotto le ruote, senza asperità, senza buche e senza dossi.
La sua invenzione funzionò e quando, dopo pochi anni dalla fine del conflitto, Giovanni tornò a lavorare, questa volta sulle strade nel ruolo di direttore dei cantieri, la macchina stendeva il manto stradale tanto uniformemente da consentire ad un passeggero di scrivere appunti durante il viaggio senza che la penna saltasse di un millimetro.
Giovanni stette sveglio molte notti per completare e realizzare copie del suo progetto.
D'altronde, per lui non dormire non era una novità, anzi! Amava sbandierare che per lui dormire era tempo sprecato e infatti, quando era in pausa dal lavoro, o in vacanza, invece di rimanere a casa a riposarsi, avvisava per telefono alcuni suoi amici appassionati come lui di montagna, e si attrezzava di tutto punto per affrontare le pareti di un monte, il più possibilmente verticali, e/o l'attraversamento di un ghiacciaio, anche in pieno inverno.
Completato e consegnato il progetto del macchinario in duplice copia: una a Parma, a una a Roma, Giovanni ottenne il brevetto per l'invenzione e alcuni esemplari della sua creatura furono chiesti anche oltre Oceano, negli Stati Uniti, dove buona parte delle arterie di comunicazione degli Stati del Nord vennero spianate con la finitrice. Egli stesso fu invitato in America a tenere conferenze sul suo macchinario ed una copia del brevetto è conservata nell'Ufficio brevetti di Chicago.
Quando però, una sera, dopo una sontuosa e lauta cena a cui aveva preso parte nella capitale dell'Illinois, Giovanni si ritirò nella sua elegante camera d'albergo di lusso, e telefonò in Italia, a casa, per rendere partecipe suo padre al trionfo, si sentì rispondere con una bestemmia in parmense stretto.
"T'at venia 'n cancher (Traduzione dal parmense: "ti venga un accidente!"), sciagurato! - urlò l'anziano genitore dall'altro capo del telefono - Hai mica visto che ore sono?".
Giovanni guardò un orologio di pregiato legno lucido, con decorazioni in oro, appeso alla parete di fronte a lui. A Chicago erano le 9 di sera (negli U.S.A, si cena presto); a Collecchio erano le 3 di notte, ma a questo, Giovanni non aveva minimamente pensato!
LA FINITRICE
F I N E
Reperibile anche su INFINITI UNIVERSI FANTASTICI e su MEETALE
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25 novembre 2016
Contro la violenza
sulle donne
IL
PICCOLO FRATELLO TI GUARDA!
Comincia
un'altra giornata, un nuovo giorno, e tu ti sei alzata.
Sono le otto e
mezza e ti accingi a far colazione. Lo so perché quando mangi accendi la radio.
Ti piace
consumare i tuoi pasti a suon di musica. Non alzi molto il volume, ma io ti
sento ugualmente. Fra di noi non c'è una gran distanza. Ci separa solo un
grigio, lungo e stretto cortile, stretto a sufficienza da permettermi di
intravederti, specie d'estate, allorché il caldo ci obbliga a tenere le
finestre aperte, ed è facile conoscere e riconoscere i tuoi movimenti, le tue
abitudini che cadenzano la tua vita quotidiana.
Ora hai spento
la radio. Hai finito di mangiare e sparisci per qualche ora. Forse esci. Lo
presumo, ma non ti vedo farlo, e stai fuori tutta la mattina. Mi piacerebbe
sapere cosa fai. Lavori? Incontri qualcuno? Chi lo sa! Io resto a casa. Non
posso uscire. Come ipocritamente vengo definito anche dalle autorità, sono
diversamente abile e guardo il mondo dalla finestra, o attraverso la Rete.
Odo di nuovo
la musica dalla radio, segnale che sei tornata e il volume del suono non è
abbastanza alto da coprire i rumori metallici delle stoviglie che muovi e usi
per preparare il pranzo. Cosa cucini di buono oggi? Mmmm....i tuoi pasti non
devono essere molto abbondanti. Sei magra, e la radio resta accesa per poco
tempo, il che mi fa pensare a pasti leggeri e veloci.
Sei magra....
Già. E' una delle poche caratteristiche che sono riuscito a vedere di te.
Sei abile a non
mostrarti mai con meno di un paio di jeans ed una maglietta. Non ti ho mai
vista meno vestita di così, ma va bene. Non sono di quelli che hanno bisogno di
vedere la nudità assoluta per determinare il grado di sex appeal di una donna.
Anzi! D'inverno, quando ci si copre di più, una donna, avvolta dentro un
cappotto chiuso fino al collo, scatena la mia fantasia. Non mi serve la cruda
evidenza per immaginare. Sei sottile ma ben fatta. La t-shirt si tende
leggermente sopra il tuo seno piccolo, tuttavia sodo e alto. I jeans avvolgono
sensualmente le tue gambe lunghe, dritte
e snelle.
Non riesco a
vederti nei dettagli, in ogni caso, la breve distanza fra noi mi restituisce
una bella immagine di te nelle rare occasioni in cui ti mostri un po' di
più.... quando ti affacci alla finestra, seppur per breve tempo, e poi ti giri
di fianco per uscire dalla stanza.
Il silenzio
ridiscende fra le mura del palazzo e del cortile in ombra, dando inizio al
pigro pomeriggio estivo. Le tende del balcone sono abbassate; non vedo e posso
solo ipotizzare quel che fai.
Per circa
un'ora non si ode alcun rumore.
Il mondo
sembra essersi fermato per la siesta.
Poi però,
verso le quattro accendi il computer. Nel silenzio, sento l'inconfondibile
sigla di Windows che si carica e, in assenza di altri suoni, il ticchettio
delle tue dita sulla tastiera, che si amplifica. Svolgi qualche lavoro? Scrivi?
Cosa fai? Non potrò mai saperlo a meno che un giorno non ci incontriamo e me lo
dica tu. Io non te lo chiederò mai, anche perché, volendo, potrei scoprirlo da
solo. Nella mia vita, nel mondo reale, non potrò fare molto, ma nel mondo
virtuale, si. Computers e rete non hanno segreti per me. Quando entri in
Internet, io ti vedo. Vedo apparire il tuo IP, anche quando navighi in
incognito. Potrei contattarti, ma non lo faccio poiché, per mestiere, non posso
e, se provassi a farlo, mi manderesti al diavolo.
Si. So anche
questo.
So che sei una
persona discreta e riservata. Non dai confidenza agli sconosciuti, quindi mi
limito a seguirti nel tuo vagabondare in rete alla ricerca di informazioni o di
una soluzione per arrotondare i tuoi introiti. Stai attenta! Non tutto è
trasparente e non tutti sono onesti, ma vedo che sei accorta e non cadi nel
tranello dei guadagni facili.
Come vorrei
conoscerti! E aiutarti, se potessi!
Ma il mio
lavoro lo vieta. Devo solo vigilare, e avvertire, soltanto in caso di grave
pericolo.
O almeno,
dovrei farlo.
Ecco che
controlli la posta, le notifiche di Google e di Facebook dove vieni agganciata
in chat da un amico. Fortunato quell'amico che ti conosce! E infine esci.
E' ora di
cena, ma stavolta il suono che l'accompagna non è quello della musica dalla
radio, bensì la voce di un telegiornalista che annuncia cosa è accaduto nel
mondo durante la giornata. E tu apparecchi frugalmente la tavola con un
servizietto all'americana, ti siedi e mangi guardando la tivù.
Ti vedo solo
di spalle, ma la quasi totale immobilità del tuo corpo, se si escludono i
movimenti delle braccia che amministrano il cibo, denota vivo interesse per ciò
che succede oltre il grigio e stretto cortile, oltre il cancello del nostro
comprensorio. Vivi sola, ma non sei solitaria. Anche per te la televisione è
un'altra finestra sul mondo alla quale ti affacci almeno una volta al giorno. E
questo è un altro motivo che mi spinge a volerti conoscere. Ma tutto avverrà a
suo tempo. Ci sarà l'occasione per farlo!
Mia madre dice
sempre che io devo ottenere tutto ciò che desidero.
E' un mio
diritto.
E' il mio diritto!
Sono disabile
ma sono sempre un uomo. E agli uomini, le donne non dicono di no.
Non vogliono restare sole.
A me, nessuno
dovrà e potrà dirmi di no.
Mia madre me
lo dice sempre.
Neppure lei ha
detto di no quando, a sedici anni, ha conosciuto l'amore di un uomo in modalità
non convenzionale, non esplicitamente richiesto e non da uno sconosciuto oppure
dal suo ragazzo. Io ne sono la
conseguenza. Ma non ha abortito. Non ha voluto sopprimere la vita che stava
crescendo in lei.
Beh...non è
andata proprio così. Suo padre, mio nonno, l' ha mandata all'ospedale per le
botte, asserendo che la violenza, in fondo, è un atto d'amore. Un uomo che
violenta una donna lo fa per troppo amore.
Sto
dimenticando di dire che io sono il frutto dell'amore fra mia madre e mio
nonno.
E comunque, mia madre mi ha messo al mondo
ugualmente, mi ha svezzato, mi ha allevato e cresciuto nella concezione di un
futuro, per me, migliore del suo, dunque mi ha insinuato lentamente, nel tempo,
l'idea di materializzare tutti i miei desideri poiché io avrei sempre avuto il
diritto di farlo. Perciò, prima o poi ci incontreremo e ci conosceremo.
Mia madre dice
sempre che le donne sono sensibili nei confronti delle persone disabili. In
loro nasce un istintivo sentimento di protezione, quindi, penso che quando ci
vedremo, di sicuro, fra noi nascerà qualcosa di buono, qualcosa di positivo. Me
lo sento.
Non potrai
dirmi di no.
Non lo farai.
Oh! Stasera non
ti fermi al telegiornale!
Hai trovato
altro da vedere dopo.
E sai da cosa
lo intuisco? Quando, in televisione, non trovi niente da seguire, chiudi la
finestra tirando giù la tapparella e spegni la luce. Stasera no. La finestra
resta aperta perché c'è qualcosa che ti piace. Fammi indovinare! Un film? O un
episodio della tua serie preferita?
Sei di gusti
difficili. Càpita di rado che ti fermi a guardare la tivù dopo il notiziario e
dopo cena.
Chiusa la
finestra e spenta la luce, sparisci per riapparire su Internet dove compi il
giro ricognitivo serale prima di andare a dormire. E rimani fino a tardi.
Posta, Google, Facebook e qualcos'altro, poi, click sulla crocetta in alto
della schermata del browser e buona notte! Anche per oggi la giornata è finita.
Non ti accorgi
della mia presenza, ma io ti sorveglio discretamente e ti veglio.
Sei sola come
me e vorresti rimanerci, ma quando mi conoscerai, cambierai opinione.
So molto di
te; non tutto, ma abbastanza per aver capito che potremmo andare d'accordo.
Ti osservo e
ti seguo senza far rumore, come un'ombra.
Come un
angelo.
Virtuale.
In attesa di
conoscerci fisicamente.
E quando mi
vedrai, quando ci vedremo di persona, non mi dirai di no.
Nessuno mi
dice di no.
Mia madre me
lo dice sempre.
"Nessuno
ti dirà mai di no. E' un tuo diritto".
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31 ottobre 2016
HALLOWEEN
IL QUADRO
La
festa era cominciata.
L'ampio
salone della villa dalle pareti chiare, istoriato agli angoli, era piuttosto
gremito di gente.
Il
party non aveva registrato il pieno ma lo spazio per ballare, fra i tavoli
disposti a ferro di cavallo attorno alla pista, non era poi enorme. Comunque,
senza lanciarsi in troppe giravolte acrobatiche, si poteva azzardare anche un
rock 'n roll. Forse, l'unico impedimento sarebbero stati proprio i costumi
indossati dai partecipanti alla festa.
C'era
di tutto: vampiri, scheletri, licantropi, zombies, vari personaggi tivù, e gli
immancabili fantasmi, tutto sommato, la maschera più semplice da realizzarsi,
costituita da un lenzuolo bianco in mezzo al quale si praticano due buchi per
poter vedere gli stipiti delle porte, e le porte per non sbatterci contro, chi
ti gira intorno e quali piedi rischi di pestare mentre balli.
Tutto
si stava svolgendo secondo il copione previsto per la fatidica sera di
Halloween, il 31 di ottobre di ogni anno a partire da dieci anni addietro;
inoltre, per completare il quadro, la cornice era perfetta: una bella, grande
villa rinascimentale, alle porte di Roma, proprietà della famiglia de
Magistris, il cui blasone nobiliare sembrava risalire giusto ai tempi di Giulio
II^ della Rovere, il papa guerriero. Ma era solo una coincidenza. O no?
La
festa era chiusa e la partecipazione era permessa solo su invito, tuttavia, i
presenti non erano obbligati ad essere nobili; l'importante è che fossero
ricchi. E lo erano.
Molti
di essi s'incontravano solo in quell'occasione, essendo tutto il resto
dell'anno in giro per il mondo per lavoro o per diporto, in ogni caso impegnati
in varie attività lavorative o meno.
Ernesto,
cinquant'anni ben portati, architetto, sotto il costume da lupo mannaro faticò
a riconoscere Antonietta, trentotto anni, truccata all'inverosimile da Strega
di Biancaneve invecchiata, ma quando accadde, i due si abbracciarono
calorosamente dopo un anno di lontananza.
E'
sempre bello rivedere gli amici a distanza di mesi.
Un
inserviente in livrea entrò nella sala e, scampanellando, annunciò la cena
imminente.
Paolo,
ingegnere, quarantacinque anni, di statura non elevata e mingherlino, annunciò
a sua volta che, prima di sedersi a tavola ed abbuffarsi, doveva andare in
bagno ad .... alleggerirsi.
"Tu
capisci che il mio pasto sarà ... abbondante" disse, rivolgendosi a
Sandra, alta, magra, eterea e cadaverica, stretta nell'abito nero fasciante di
Morticia Addams.
"Certo.
- convenne, parlando con la calma distaccata e sofisticata del personaggio,
guardando divertita Paolo, realmente spaventoso nel suo azzeccato look
rivoltante di zombie - Capisco. Ti accompagno".
Sandra
era la sorella della proprietaria, conosceva la casa come le sue tasche e lo
accompagnò.
A
metà del corridoio, Paolo si bloccò, colpito da un quadro, incastrato fra una
lunga e stretta libreria di noce scuro ed un massiccio pendolo, raffigurante un
paesaggio desolato e scuro in fondo, rischiarato da roghi fra le cui fiamme,
poveretti condannati a morte si contorcevano, coi volti sfigurati dalla
sofferenza e del terrore. Attorno alle pire, la luce ambrata delle fiamme sfiorava
di striscio volti e profili degli astanti, radunati attorno ai patiboli,
alcuni, in apparenza quasi eccitati a vedere quei corpi orrendamente consumati
dal fuoco.
Paolo
rabbrividì anche a voce.
Quel
dipinto era inquietante perché pareva emanare vita propria.
Sperò
di sbagliarsi ma ebbe l'impressione che uno di quei volti si fosse girato e lo
stesse guardando con occhi pieni di crudele trionfo.
Lo
stimolo di andare in bagno aumentò e Paolo corse verso la sua destinazione,
seguito da Sandra che ridacchiava, divertita.
Paolo
non lo era per niente.
Uscito
dal bagno, avrebbe volentieri cambiato strada ma il percorso per tornare in
sala da pranzo era quello e non c'era altra scelta.
"Conosci,
per caso, la storia di quel quadro?" chiese l'uomo a Sandra.
Sandra
alzò le spalle con nonchalance, più per restare nei panni del controllato
personaggio.
"Una
condanna a morte collettiva, credo. - rispose - L'Inquisizione non era usata
solo per la caccia alle streghe".
Paolo
annuì.
"Anche
per levarsi di torno chi la pensava diversamente dal Papa" ipotizzò.
"Anche"
confermò Sandra, sempre scherzosamente altezzosa.
In
quel momento, nel corridoio comparve pure Alberta, la sorella di Sandra, ovvero
la proprietaria della villa la quale, eccitata per l'annuncio della cena,
invitò i due a sbrigarsi. Poi gettò una fuggevole occhiata al quadro e Paolo
scorse nei suoi occhi quasi neri un'espressione di paura.
"Si
può togliere quel quadro, Sandra?".
"Si.
- rispose la donna, sempre olimpica - Ma non stasera. S'intona con la
festa".
Paolo
vide le due donne scambiarsi occhiate particolari. Alberta era tesa, Sandra,
pacifica.
Una
Morticia perfetta, amante del lugubre.
Prima
di allontanarsi, Paolo dette un'ultima occhiata al dipinto. E scoprì che
sarebbe stato meglio non farlo. In caratteri antichi, in basso a destra, vide
scritta una data: 31 ottobre 1515.
Il
brivido che percorse la sua schiena assomigliò vagamente ad una scarica
elettrica.
Insieme,
tutti e tre tornarono nella sala da pranzo dove, dopo poco cominciarono ad
entrare i camerieri con i vassoi e le pietanze.
Dimenticandosi
subito del quadro e calandosi appieno nel suo personaggio, vedendo su un
vassoio d'argento campeggiare un enorme tacchino ben cotto, Paolo finse di
lanciarsi su di esso, intenzionato a divorarlo a morsi. Poi, sempre scherzando,
si girò e cominciò la farsa dei morsi agli invitati, agendo da vero zombie
affamato di carne umana.
Strillando
e ridendo, i partecipanti scansavano Paolo, correndo in qua e in là per la sala
finché Alberta non impose, con cortesia e fermezza, di prendere i propri posti
ai tavoli.
E
si dette il via all'abbuffata.
Dopo
cena, iniziò il sabba delle danze.
E
fu buffo vedere Egisto, quarant'anni, avvocato, alto, diafano e compassato
Dracula, dimenarsi in un indiavolato twist alla John Travolta di Pulp Fiction,
di fronte ad Evelina, frizzante sua coetanea, professoressa di matematica alle
medie, fasciata in una tuta nera con sopra dipinto uno scheletro.
Malgrado
il frastuono della musica diffusa a palla nel locale, i ballerini riuscirono a
scambiarsi qualche parola.
"Avete
visto il quadro nel corridoio?" esordì Paolo a cui era tornato
d'improvviso in mente la tela, mentre si scatenava in una street dance davanti
ad Antonietta e altri invitati.
"Quale
quadro?" chiese Antonietta.
"Quello
dei roghi" rispose Paolo, risoluto.
"Ah
si! - fece Sergio, dentro la pesante tuta pelosa di Chewbecca - Quello".
"Nessuno
sa qualcosa di quel quadro?" ritornò Paolo.
"Lo
stile sembra quello di Caravaggio. - s'intromise Egisto - Ma chiaramente non è
lui. Potrebbe essere di qualche suo allievo, o emulo, non certo molto abile
nemmeno a riprodurne il tocco alla lontana".
"Beh,
questo è sicuro. - commentò Paolo - Però mi ha messo i brividi. Nonostante ci
siano i roghi. -
I
suoi interlocutori risero - Soprattutto la data" terminò Paolo, di colpo
diventato serio.
"Perché?
- fece Antonietta - che data è?"
Paolo
la rivelò.
"Oh,
cavolo!" esclamò Egisto.
"Stasera,
cinquecento anni fa" osservò Antonietta.
"L'avranno
fatto apposta?" si chiese Paolo.
"Non
lo so. - rispose Egisto - Se è stata un'idea di Sandra, non mi meraviglierei.
E' una burlona, ma Alberta no. Lei è seria. Non farebbe una cosa del
genere".
"Ma
loro sanno di quel quadro?" domandò Antonietta.
"Non
ne ho idea. - rispose Egisto - Credo che quel quadro faccia parte del loro
patrimonio ma è uno di quegli oggetti che si sa di possedere, al quale, però,
non si dà mai grande importanza. E' una specie di istituzione domestica che si
accetta per convenzione".
Per
coincidenza, in quel momento, al gruppetto si unì Sandra che raccolse le ultime
battute.
"Il
dipinto risale effettivamente al Cinquecento, - si adoperò subito ad informare
la donna - ma l'autore è un emerito sconosciuto. Forse, solo un pittore di
strada".
"Che
quella sera del trentuno ottobre millecinquecentoquindici si era trovato,
guarda caso, proprio ad assistere all'esecuzione di poveracci, destinati a
finire cotti alla brace chissà per quali colpe".
Anche
agli altri conversatori vennero i brividi.
Naturalmente,
fra le varie maschere c'erano anche i fantasmi.
Nessuno
però fece caso che sotto a qualche lenzuolo non c'era un corpo solido.
Nella
sala la temperatura si abbassò, ma il calore provocato dall'intensità del ritmo
nei balli, non permise ai danzanti di avvedersene.
Verso
mezzanotte toccò ad Aroldo, medico, cinquantacinque anni nascosti dietro alla
maschera di cuoio di Hannibal Lecter, ad aver bisogno della toilette, ma lui
non ebbe necessità di essere accompagnato, essendo il medico della famiglia de
Magistris, dunque, profondo conoscitore di quella casa.
Anche
Aroldo percorse il corridoio che in quel momento era avvolto in una insolita
penombra.
Passò
davanti al quadro ma, a differenza di Paolo e degli altri invitati, gli lanciò
un'occhiata priva d'interesse e andò oltre.
Tuttavia,
con la coda dell'occhio, dietro di lui captò qualcosa e le sue narici
percepirono un leggero olezzo di bruciato. Si girò di scatto ma alle sue spalle
tutto era tranquillo. Si recò in bagno avvertendo una singolare, sinistra
inquietudine.
Al
ritorno, si fermò davanti al dipinto e notò un dettaglio che non aveva mai
scorto prima e che lo fece sussultare. Osservando meglio le figure riunite
intorno alle pire, scoprì che alcune di esse assomigliavano a qualche presente
alla festa. Anche lui vide poi la data.
"Mio
Dio!" esclamò a bassa voce.
Si
voltò verso il fondo del corridoio dove c'era la porta che introduceva nella
sala.
Dove
avrebbe dovuto esserci la porta che introduceva alla sala.
Che
invece era scomparsa dietro uno spesso velo grigio semovente, fluttuante,
dentro il quale nuotavano ovali neri, minacciosi, terrificanti, che parevano
trafiggerlo con sguardi in cui terrore e odio confluivano tangibilmente.
Fece per correre verso la porta ad avvertire
gli ospiti ma dal quadro fuoriuscì una fiammata che lo avvolse, trasformandolo
in una torcia umana.
Le
sue urla furono sentite attraverso le pareti.
Gradualmente,
ma con una certa velocità, la casa precipitò nelle tenebre ed i fantasmi reali
si distinsero nel buio, chiari, luminosi, sinistri, mortali, circondando gli
invitati e bloccandoli nella sala le cui uscite si chiusero automaticamente
senza intervento umano.
Poi,
i fantasmi presero fuoco, volgendo in torce che urlarono oscillando, sfiorando con lingue rosse e tizzoni
qualunque cosa fosse infiammabile, invadendo in breve tempo tutto l'ambiente.
31
ottobre 1515
Il
piccolo Giuseppe, di dieci mesi, era morto fra le braccia di sua madre,
Beatrice, disperata.
Ufficialmente,
la morte era stata provocata da polmonite. Facile morire di polmonite a quei
tempi.
Riscaldamento
ed igiene difettavano pesantemente nelle misere abitazioni del popolo di Roma,
ma di qualsiasi altra città.
In
quel caso però, il piccolo Giuseppe non era nato in un tugurio bensì nella
grande stanza da letto, riccamente decorata, di Palazzo de Magistris, una bella
costruzione situata nella zona corrispondente all'attuale Piazza Bologna, quasi
al centro della Capitale. E Beatrice, la mamma del piccino, quando lui si
ammalò, aveva convocato i migliori medici nella speranza che lo guarissero. Non
c'erano riusciti, in compenso, alcuni membri della servitù erano intervenuti
con erbe officinali. Nemmeno quelle avevano sortito risultati e la famiglia era
giunta all'errata conclusione che quelle erbe fossero velenose, coltivate da
persone praticanti la stregoneria, le quali furono immediatamente arrestate,
schiacciate da quell'infamante accusa, con le conseguenze ben note a tutti.
Finite nelle infernali maglie del Tribunale dell'Inquisizione, dopo estenuanti
supplizi, uomini e donne furono legati ai ceppi, sulle pire allestite al centro
della piazza più vicine e lasciati ardere vivi davanti ai componenti della
famiglia che assistettero allo spettacolo con sadica soddisfazione, inneggiando
ad una morte dei condannati, lenta e atroce.
Un
anonimo imbratta-tele aveva riprodotto la scena e più in là negli anni, un
esponente della nobile famiglia aveva acquistato la tela nella bottega di un
rigattiere, per pochi soldi. Il quadro poi, era stato sconfinato in fondo ad
una cantina fino a che non era stato ritrovato, quasi mezzo millennio dopo,
dalle due sorelle de Magistris, solo che Alberta non era mai stata molto
entusiasta di esporlo fra le mura di casa, mentre Sandra, più scanzonata e
scettica nei confronti del sovrannaturale, non aveva trovato nulla di strano e
disdicevole nell'includerlo fra i dipinti che riempivano le pareti della villa.
Chi
avrebbe mai detto che cinquecento anni dopo, le vittime di quell'orribile
episodio avrebbero consumato la loro vendetta all'insaputa di molti componenti
del casato, forse ignari del suo passato poco glorioso?
Forse.
Paola
IL QUADRO diPaola Leoncini è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
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by Paola L.
Bello. Doveva essere proprio un tipo dinamico Giovanni, non solo nella vita ma anche con la mente. Ed anche simpatico, dotato di molta immaginazione ed inventiva. Non bastano infatti le conoscenze tecniche per inventare qualcosa. Difatti con l'immaginazione è riuscito a vedere da un carro armato una finitrice. Non conoscevo la storia della nascita di questo mezzo. Del resto, molte invenzioni nascono proprio dall'intuizione di un solo uomo.
RispondiEliminaGrazie Angela.
RispondiEliminaEh si. Giovanni era un vulcano in continua eruzione. Gli bastava vedere un oggetto e in esso ce ne vedeva subito un altro. Era fatto così. Ma, come tutte le persone dotate di alcune speciali caratteristiche, era genio e tanta sregolatezza. Poi finirò di raccontarti il resto. :)