Mi
colpì un caso di qualche anno fa.
Una
donna aspettava il quarto figlio ma, ad inizio gravidanza, le venne
diagnosticato un cancro, curabile tuttavia previo ciclo di chemioterapia che
però avrebbe potuto recare danni al feto. Avendo già tre figli, gli stessi
medici le consigliarono di pensare più a lei e curare il suo male. Anche il
marito la pregò di seguire la terapia poiché la sua eventuale morte lo avrebbe
lasciato solo con tre bambini, ma lei
no. Scelse di non curarsi e portare avanti la gravidanza, oltretutto con
sofferenze indicibili. Dio e la Chiesa comandano di preferire la vita ad ogni
costo. Secondo lei. Risultato: muore, lasciando il marito, disperato, distrutto
dal dolore, ad accudire gli altri tre figli.
Devo
andare avanti?
Per carità! Ognuno è libero di credere in ciò che desidera, in ciò che lo fa star meglio, con il grado di intensità voluto, ed è vero che la religione incita a difendere la vita sopra ogni cosa, ma penso che si
verifichino dei casi in cui sarebbe meglio riflettere sulle proprie decisioni.
Indubbiamente la fede può essere essa stessa un farmaco che, se proprio non
guarisce, di sicuro coadiuva un'eventuale terapia medica oltre a recare un benessere psico-fisico comprovato, ma può anche
ottundere la mente al punto di non permettere di valutare con la dovuta
correttezza e obiettività la situazione in cui ci si trova. E i fedeli
integralisti, ostinandosi a rispettare comandamenti e precetti alla lettera
arrivando a negare l'evidenza, possono, in effetti, passare per creature non di
questo mondo.
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